Le spacconate dipietriste, la missione di rivoltare il paese come un calzino (Davigo), la rivendicazione di una “rivoluzione legale e saggia” (Catelani), parole cupe come “tortura” e “rastrellamenti”

'93 sfumature di terrore

Alessandro Giuli
Rileggere la decomposizione civile, politica e antropologica italiana con occhi non cisposi. Conversazione con Mattia Feltri sul suo viaggio antico e nuovo nel girone di Mani pulite. “Su Mani pulite discutiamo da decenni, io spretato e critico, mio padre più favorevole, sebbene non più entusiasta come allora”

Mattia Feltri ai tempi di Mani pulite ci credeva eccome nella palingenesi italiana dalle ruberie e dalla corruzione.

 

Ventiquattrenne, era giovane abbastanza per inebriarsi senza farsi troppe domande. Oggi, quando lo incontro in un caffè romano del Rione Monti, lui, inviato della Stampa ultraquarantenne, si emoziona rievocando le lacrime impotenti di Gianni De Michelis ai funerali di Bettino Craxi: “Non siamo riusciti a difenderlo”. Ma è l’unica concessione a uno stato d’animo altrimenti calmo e pacificato. Dal 1992-’93 a oggi sono sorti e tramontati parecchi mondi, sotto il cielo italiano. In questi giorni Mattia ha pubblicato con Marsilio un libro intitolato “Novantatré”, con prefazione di Giuliano Ferrara, che raccoglie (lievemente emendati e aggiornati) gli articoli scritti sul Foglio del 2003 nella rubrica Mattia nel Terrore: “Fu il direttore Giuliano Ferrara – scrive Feltri nell’introduzione – a propormi un’inchiesta sterminata, lunga dodici mesi, per rifare ogni giorno del 2003 la cronaca di ogni giorno del 1993, col vantaggio di sapere come sarebbe andata a finire”. Un corpo a corpo con i falsi splendori e le reali, tragiche miserie di Tangentopoli. Mattia ha appena scritto sulla Stampa una replica alla stroncatura che suo padre gli ha inflitto, con garbo, sul Giornale. Vittorio Feltri gli rimprovera un atteggiamento così garantista da essere unidimensionale rispetto a Mani pulite, ha letto il libro, si è sentito “scaraventato nella discarica dei reietti”. E obietta: “Se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70”. Quanto a Craxi, invalicabile protagonista di ogni riflessione su quegli anni, “quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile (…) su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene”. Nel gergo giornalistico si direbbe che il conflitto tra i due Feltri “fa sangue”, qualcuno sarà tentato di spremerne un poco per un buon titolo; però qui non c’è conflitto né sangue. Mattia ha chiuso la questione così: “Su Mani pulite discutiamo da decenni, io spretato e critico, mio padre più favorevole, sebbene non entusiasta come quando dirigeva l’Indipendente; talvolta pare che ci stiamo avvicinando e invece no, ognuno resta al punto di partenza”.

 

Il punto di partenza di questa conversazione è un libro che, pubblicato e letto a rate nel 2003 su un quotidiano votato al berlusconismo frondista e anti manettaro, poteva ispirare un eccitato coinvolgimento militante. Riletto oggi, con l’ausilio di una pietas ermeneutica suggerita con fredda cognizione dall’autore, lascia dietro di sé uno sgomento spettrale, nulla di consolatorio e qualcosa di perdonabile. Un viaggio nella miseria umana. A cominciare da quella delle vittime, i politici spazzati via dal circo mediatico-giudiziario: un suicidio di massa, con tratti di cannibalismo, al cospetto di una dittatura giacobina senza possibilità né volontà di resistenza. Penso ad amici di Mattia e della ditta fogliante come Francesco Rutelli (“Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere”) e Luigi Manconi (quella di Craxi “è l’infermità dei cattivi… la malattia completa crudelmente l’immagine di un uomo che – in una torva solitudine – cova i suoi rancori…”).

 

“Manconi mi chiamò, quando lesse nella mia rubrica la sua citazione vecchia di dieci anni. Pensai: adesso s’incazza… mi disse invece: davvero io ho detto quelle cose? Lui era davvero stupito. Quelli che si rilessero, e si rileggono, faticano a riconoscersi. Anche io che l’ho scritto, riprendendolo in mano dopo 12 anni, ho trovato nel libro cose che non sapevo di aver raccontato… E’ vero, i peggiori sono stati i politici. Intendiamoci: l’impressione che noi al Foglio abbiamo maturato sulla magistratura resta quella, non un passo indietro. Però i magistrati erano i carnefici e i carnefici sentono l’odore del sangue. I politici erano le vittime e si sono comportati come si comportano sempre le vittime: hanno cercato di mandare avanti le altre vittime. Come nei romanzi distopici, quando i personaggi cercano di vendersi amici o mogli pur di salvarsi la pelle. Il disfacimento del Psi è qualcosa di clamoroso, davvero si rubavano tra naufraghi il pezzetto di legno per restare a galla e poi affondavano tutti”. Mattia l’ha raccontato, questo e molto altro, attraverso gli avvenimenti quotidiani e le parole agonizzanti dei protagonisti. “Quando un amico, dopo aver visto la fiction ‘1992’, mi ha detto tu devi riprendere in mano quel tuo lavoro, gli ho risposto che non potevo mica competere con le fiction, non posso mica raccontare la verità; la verità non esiste, esistono punti di vista più o meno forti e argomentati. E lui: appunto, il tuo deve esserci. Allora ho cominciato a rimettere mano al libro. Ma alla fine mi sono accorto che i libri sono importanti per chi li scrive, il resto è una conseguenza più o meno positiva. E il mio è un libro che parla anche di noi oggi, della condizione umana che si ripete ciclicamente nel tempo, motivo per cui l’ho chiamato immodestamente ‘Novantatré’: è chiaro che non si trattava delle decapitazioni nella Rivoluzione francese, ma il processo dell’animo umano è quello”. C’è un libro di Remo Bodei, “Geometria delle passioni” (Feltrinelli), nel quale si racconta dei nobili parigini arrestati che, in attesa della ghigliottina, muti e aggraziati componevano madrigali… nel tuo libro c’è un girone dantesco di politici che si gettano l’un l’altro nel fuoco, non è uno scarto antropologico da poco. Ma la meccanica del capro espiatorio si ripete. “Il nostro è un paese che ha cercato di ripartire da ceneri e bugie attraverso la coscienza dei propri capri espiatori, Craxi mai ha dubitato di esserlo, e nemmeno i fascisti nel 1945, da colpevoli naturalmente”.

 

A proposito, nella risposta a tuo padre scrivi questo: “Nel ’93 avevano diritto di cittadinanza soltanto i partiti eredi delle tradizioni assassine del Novecento, postcomunisti e postfascisti, condannati dalla storia ma assolti in tribunale. Ed era già troppo tardi”. E’ talmente vero che la più grande responsabilità di quei due partiti non sta nell’aver profittato di un’innocenza forzosa (An) o garantita dall’ipocrisia (il Pci partitocratico come gli altri e anche alimentato dai rubli di Mosca), sta sopra tutto nel non aver saputo pacificare l’Italia post Tangentopoli. Un fallimento storico che non riguarda soltanto la Bicamerale… “Senza per forza parlare della caratura dei vecchi leader, che rispetto ai contemporanei ci sembrano sempre migliori, secondo me quella pacificazione non era possibile perché quei partiti non sono stati capaci di rinunciare all’assolutismo delle loro tradizioni che, diventato così piccino e inutile, è stato sostituito dal nuovo assoluto delle Mani pulite. Solo chi non voleva vedere, come disse Craxi, poteva ignorare che cosa fosse il Pci dal punto di vista della legalità. Sui postfascisti mancava la controprova”. Che poi è tremendamente arrivata.

 

Dalla dittatura del proletariato, fascista o comunista, alla dittatura degli onesti. “La totale incapacità di pensare la politica come l’ambito del possibile e del compromesso”. E’ il marchio dei Cinque stelle. “Quando arriva qualcuno come Beppe Grillo, che propone una visione assolutistica della politica, non può che ottenere qualche vittoria tattica, magari sanguinosa, forse anche un po’ duratura, ma destinata al fallimento”. Ai finiani rimproverai a suo tempo questo: saremmo disposti a tollerare una quota minima, fisiologica di ruberie, ma soltanto in presenza di una buona arte di governare; loro nemmeno questo. “Lo diceva Benedetto Croce, che non ha mai giustificato i ladri. Se io vado da un medico mi interessa che mi guarisca, non la sua dichiarazione dei redditi. Non è un arrendersi al malaffare ma alla imperfezione umana, ai crolli improvvisi della nostra moralità che non sempre regge…”. Una delle cose migliori del libro di Mattia sono i corsivi alla fine di ciascun paragrafo: dichiarazioni pubbliche o lanci di agenzie illuminanti che fanno da contrappunto alla narrazione, ma si potrebbero leggere anche solo questi corsivi per avere un filo conduttore di verità compiute e inoppugnabili. Ci sono in particolare le frasi dei magistrati del pool milanese, ebbri di potenza: dalle spacconate dipietriste alla missione di rivoltare il paese come un calzino (Piercamillo Davigo), la rivendicazione di una “rivoluzione legale e saggia” (Giulio Catelani); poi parole come “tortura”, la celebrazione della carcerazione preventiva come metodo per “la ricerca della verità” (Francesco Saverio Borrelli) o perché “altrimenti la gente s’incazza” (Davigo), l’autoconvinzione che i magistrati siano gli “unici rimasti a garantire il presidio democratico” (Roberto Scarpinato) e così via fino al culmine: “Finora nella nostra inchiesta siamo corsi dietro alle brecce… restano da compiere ancora i rastrellamenti” (Davigo). Rastrellamenti! Ecco, il punto di vista dei moralizzatori è questo, una missione da realizzare manu militari dichiarata così, con aperta iattanza e spregio della misura. Oggi mi domando se questi timbri tragici, questi toni bellicosamente trionfali possano ancora essere utilizzati dalle toghe. La mia riposta sarebbe no, perché nel frattempo la politica ha reagito… magari prendendole di nuovo. Voglio insomma avvicinarmi a Silvio Berlusconi. “Anche per me no, la magistratura non può più permetterselo. Dipende dal fatto che è finita l’ebbrezza, ma quello stato d’animo non riguardava soltanto i magistrati, riguardava tutti noi che facevamo il tifo per loro. E quando tu hai una tifoseria rumorosa e numerosa prendi coraggio. Ma poi il clima è cambiato, sono aumentate le file di quelli che hanno capito che la grande rivoluzione era in realtà un grande linciaggio, qualcuno ha capito che quei magistrati non perseguivano più il reato ma la colpa collettiva. Come rilevava lo stesso Borrelli, Mani pulite non è andata nella direzione sperata”. Lui era il capo. “Borrelli, e ci tengo a dirlo, è una persona che stimo molto, se non altro perché sa scrivere ed è un uomo colto. Non è una cosa da poco. Io non sono un persecutore dei peccati, mi piace capire le persone. Borrelli l’altro giorno ha scritto una lettera a Pigi Battista sul Corriere della Sera dicendo che lui non ha detto quella frase famosa – noi li incarceriamo per farli parlare e li scarceriamo quando hanno parlato – ma quella frase c’è, risulta da più d’una fonte. Lui non ricorda d’averla pronunciata o probabilmente le dà un’altra interpretazione. A me piace pensare che un uomo del suo livello culturale, andando a sbatterci contro dopo tanti anni, non si riconosca più in quelle pagine lì, come non ci si riconosce più nessuno. Come Rutelli e Manconi, amici che si chiedono: ma eravamo noi, quelli? Ecco, spero, penso che questo accada anche al procuratore Borrelli”. E’ successo poi che ogni tentativo di proseguire quella battaglia con mezzi scopertamente politici, da Antonio Di Pietro ad Antonio Ingroia, ha rivelato se non malafede la malagrazia e la pochezza dei suoi interpreti. “Quando Di Pietro sbatteva i pugni sul tavolo davanti a Prodi lui interpretava il ruolo della guardia davanti al ladro. Poi non più, dal momento dell’ingresso in politica”. Torno a insistere: la politica ha tentato di riguadagnare sovranità con Silvio Berlusconi, malgrado tutti i suoi deficit iniziali e quelli mostrati in corso d’opera. Per un ventennio ha polarizzato l’Italia in due fronti e tenuto in vita quello dei mozzorecchi, il partito delle procure. Il Cav. ha impiegato con grande spargimento di energie i suoi dispositivi mediatici, ha goduto di sostegno da parte di piccoli, preziosi fiancheggiatori garantisti come il Foglio. Però ha perso. “Berlusconi ha dei meriti che abbiamo riconosciuto. Nel 1993, nello schema di cui dicevamo – postfascisti e postcomunisti al centro e gli altri più o meno sottoterra – arriva lui e salva la baracca. Non so in che mani saremmo finiti, al di là di quelle di Achille Occhetto… insomma questa cultura super giudiziaria avrebbe avuto la strada in discesa. Invece Berlusconi ha tenuto viva una piccola ribellione garantista, il distacco dalla mitologia manipulitista. Però alla lunga ha perso. Ha combattuto molto male la battaglia, oggi Forza Italia non è un partito garantista, neanche un po’, e nemmeno liberale. Questo è il grandissimo fallimento di Berlusconi: ha perso perché è stato condannato, ha giocato la partita su di sé invece che giocarla in generale, e non ha fatto riforme. Sono contento che ci sia stato, ma ha perso su tutta la linea”. Oggi Renzi sembra avviarsi a qualcosa di non troppo dissimile, sebbene ci siano differenze di peso. La sua estrazione politica lo aiuta, ma un conflitto carsico con una parte influente della magistratura è già agli atti. “Renzi ha diversi vantaggi. Intanto non ha 49 o 75 avvisi di garanzia. Poi, come abbiamo detto, i tempi sono diversi e lui è saggio: non è andato allo scontro frontale, non avendo l’urgenza che poteva avere Berlusconi, probabilmente ha posticipato la faccenda, ma un paio di schiaffoni li ha dati. Una cosa che apprezzo, ma molto molto, in Renzi è questa: ogni volta che c’è un ministro, sottosegretario o collaboratore nei guai, le sue valutazioni, che possono essere condivise o no, non dipendono mai dal metro del casellario giudiziale. Se lui facesse dimettere la Boschi, si procurerebbe più danno o meno danno? Lui valuta così: mi fa più danno se va via. E se la tiene lì. E fa bene. Lupi fa più danno se resta o se va via? Fa più danno se rimane, allora lui preme perché vada via. Sono valutazioni che possono non piacere, ma la politica deve ragionare con il metro della politica, non con quello del football americano, del’induismo o della magistratura”.

 

C’è un elemento nuovo in questo tuo ragionare, una specie di pietas, di comprensione antropologica per tutti, anche per i magistrati e i loro errori. Quasi che, per dirla con Charlie Hebdo, “Tout est pardonné”. “In quegli anni ho pensato il peggio possibile. E quando ho scritto il libro, dodici anni fa, l’ho vissuto anche come un atto d’accusa. Ma quando l’ho riletto non lo era più. Storicamente puoi condannare Robespierre, ma oggi a che serve? Sono cambiato anche io, ho perfezionato la mia visione del mondo e penso che le società si muovano tutte assieme, magari qualcuno dà una spinta maggiore ma nessuno può farcela da solo. Mi sono accorto che ‘rastrellamento’ lo diceva Davigo, ma lo urlavamo con lui tutti noi. Usciva dalla sua bocca ma partiva dalle nostre corde vocali. Sarebbe un delitto dare la colpa solo a Davigo, era la colpa d’un mondo di cui Davigo era l’avanguardia”.

 

Arriviamo al coro dei giornalisti, un plotone d’esecuzione che andò oltre anche al vero o presunto patto dei quattro giornali – Corriere, Repubblica, Stampa, Unità – per con cordare linea, scoop e titoli. “In realtà, rispetto agli altri attori sulla scena, numerosi giornalisti sono rimasti nel ’93, non sono mai rincasati. Forse perché è più comodo, ma continuano esattamente allo stesso modo. Chiamano inchiesta il riciclaggio sedentario dei verbali. Noi del Foglio – con Vichi Festa, Christian Rocca, Filippo Facci – facevamo controinchieste andando a sudarci dichiarazione per dichiarazione, le procure naturalmente non ci davano niente. Un vero controlavoro con tutte le difficoltà conseguenti. E sai come le chiamavano le nostre controinchieste? ‘Veleni’. Noi che lavoravamo: veleni; quelli che facevano la buca delle lettere: inchieste. E continua così! Ci sono giornalisti che vivono da decenni sulla pubblicazione di verbali recapitati dalle procure, un po’ comodo… ”. Tranne qualche raro caso, poche autocritiche a posteriori. “Non è che devi fare le abiure in piazza, però… Dopo i funerali di Craxi mi ricordo le lacrime di De Michelis a ‘Porta a Porta’, e ancora un po’ mi commuovo, mentre diceva ‘non abbiamo saputo difenderlo’. Quella era una cosa bella… ce ne volevano altre, non necessariamente con le lacrime ma ci volevano”. Davvero c’era un solo gigante, Bettino Craxi? “Su YouTube ci sono le deposizioni del processo Enimont, sono perfino divertenti: ho rivisto da poco un’ampia parte della deposizione di Bossi e un’ampia parte della deposizione di Craxi. Non c’è nulla di meglio per restituirci la sensazione del nostro impazzimento: abbiamo scelto un fanfarone di provincia, quel Bossi lì che balbetta, invece di un grande statista… E guarda che Craxi sbagliò per primo, all’inizio, definendo Mario Chiesa un ‘mariuolo’, ma era la figura migliore”. Conclusione: Mani pulite è stata la prima prova di sedicente sovranità italiana dopo la fine della Guerra fredda, del sistema bloccato; allentato il guinzaglio, il cannibalismo. “Non ho mai creduto alla regia straniera, che dovevano fare gli americani? Cercavano di capire quel che succedeva, e provavano a indirizzare il corso degli eventi. Nel grande caos, ognuno ha fatto la sua parte”.

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