Meno male che l'iPhone c'è

Come ti sdraio Serra

Piero Vietti

In “Ognuno potrebbe” Michele Serra racconta i trentacinquenni di oggi. Ci ha capito pochissimo, mette in pagina una generazione inesistente, ficca le paturnie di un sessantenne spiazzato dalla tecnologia nella testa di un personaggio che ha 25 anni meno di lui, lo imbottisce di luoghi comuni, insicurezze tipiche dei protagonisti di quei film italiani che riempiono il Cinema Sacher e di cui tra sei mesi avremo dimenticato il nome, confondendolo con altre cento pellicole uguali.

Ci sono molti modi per raccontare, spiegare, capire o interrogare i primi della generazione dei nati dopo il 1980, i cosiddetti millennial. Questi “primi” oggi corrono verso i trentasei anni, e sono probabilmente i più colpiti dalla rivoluzione digitale: quando abbandonavano l’adolescenza, a internet si accedeva solo da computer fissi con monitor ingombranti, oggi vivono in un mondo in cui per informarsi basta scorrere un pollice su uno schermo tascabile. Prima linea dell’esercito degli insicuri, senza certezze, diventati adulti tra l’11 settembre e la crisi economica, nella vulgata corrente questi trentacinquenni vengono raccontati come bamboccioni incapaci di prendere decisioni. Come se non bastassero le incertezze economiche ed esistenziali, i più vecchi li criticano, come sempre è accaduto da quando c’è il mondo, addossano a loro le proprie mancanze. Difficile raccontarli, se non se ne fa parte.

 

Michele Serra ci ha provato, con un libro uscito da poco per Feltrinelli, “Ognuno potrebbe”. Il libro è godibile (come molto Michele Serra è), pessimista (idem) e nichilista. Generalizza, Serra, macchiettizzando il protagonista del suo libro, Giulio Maria, facendolo muovere in una periferia industriale indistinta, brutta e triste. “L’Italia di Michele Serra”, recita la fascetta gialla sulla copertina del libro, insignendo lo scrittore e storico rubrichista di Repubblica del titolo di cantore dell’Italia contemporanea, e interprete verace della generazione dei trentacinquenni spaesati. Il romanzo, spezzettato in trenta capitoletti, è inchiodato in un presente tanto inutile quanto noioso.

 

Se la sua intenzione è raccontare chi oggi ha quell’età, la riuscita lascia dei dubbi: Serra mette in pagina una generazione inesistente, ficca le paturnie di un sessantenne spiazzato dalla tecnologia nella testa di un personaggio trentaseienne, lo imbottisce di luoghi comuni, insicurezze tipiche dei protagonisti di quei film italiani che riempiono il Cinema Sacher e di cui tra sei mesi avremo dimenticato il nome, confondendolo con altre cento pellicole uguali. Giulio Maria è naturalmente precario, vive con la mamma, non sa che farsene dell’impresa lasciatagli dal padre ebanista (ah, il lavoro manuale di un tempo), sta con Agnese da qualche anno ed è talmente immerso nel narcisismo di questo mondo, suo malgrado, che di lavoro cataloga video con le esultanze dei calciatori.

 

Come in tante delle sue rubriche su Repubblica, Serra identifica uno dei nemici principali dell’uomo moderno con la tecnologia, e in particolare con il web e con gli smartphone. Sono loro i protagonisti negativi del libro, gli oggetti che causano la Sindrome dello Sguardo Basso per cui si finisce all’ospedale dopo un incidente causato dalla digitazione di un messaggio, sono il muro di incomunicabilità tra Giulio e la sua ragazza, tra Giulio e il resto del mondo. Volendo piegare la realtà alla sua tesi, Serra riduce i selfie a “masturbazione”, il desiderio di condividere a “narcisismo”, sfiorando appena la superficie di un fenomeno tanto interessante quanto poco inscatolabile in definizioni del passato (ancorché ancora utilizzabili).

 

Parlandone in tv a “Che tempo che fa” domenica scorsa, Michele Serra ha paraculeggiato splendidamente, spalleggiato dall’amico Fabio Fazio – ma sarebbe meglio dire che ha “trollato” chi lo ascoltava, non fosse che “trollare” è parola da social network, e lui potrebbe infastidirsi – con un gioco retorico bello da sentire ma in fondo vuoto: “Il mio non è un libro passatista, semmai è un libro futurista, perché dice che la salvezza è nella materia, nelle nostre mani”. Sembrerebbe interessante, se non fosse per come si esplicita: il protagonista del romanzo si ritrova dopo un blackout a lavare a mano pentole, piatti, bicchieri e posate nel bar della sua ragazza. E mentre compie questo gesto così straordinario ha un’illuminazione: “Se non hai le mani libere, non puoi farti un selfie”. Davvero Michele Serra pensa che la generazione dei trentacinquenni non abbia mai lavato i piatti a mano? Davvero pensa di sostenere impunemente che questo è futurismo?

 

“Non ho Facebook perché non ho tempo di occuparmene”, ha detto Serra da Fazio con il tono dell’aristocratico narciso che finge amicizia con il popolo: voi divertitevi pure con queste cazzate, non dico mica che siano cattive, solo ho cose più importanti da fare, io. Già, l’io. Il grande nemico del Serra di “Ognuno potrebbe” è quella parola, “ossessione” dei nostri tempi, prefisso in inglese di quel Phone che lui tanto disprezza (stando a un’etimologia tutta sua), e che traduce nel libro con egòfono – e chissà come se la rideva dentro mentre la inventava, e pensava con questa trovata di squarciare il velo dell’individualismo che tutti ottunde quando afferrano il loro smartphone.



Stefano Bartezzaghi è stato fin troppo bravo a recensirlo qualche giorno fa. Nel lungo articolo apparso su Repubblica sottolineava che il presente di “Ognuno potrebbe” è una “potenzialità di cui l’età degli eterni ragazzi non è ancora svuotata”, e che “ognuno potrebbe salvare il posto in cui vive e vedere così il tempo ricominciare a scorrere”. Invece anche il titolo è un inganno. Quell’ognuno potrebbe lascia intuire una possibilità che non si concretizza mai, che sarebbe lì a portata di tutti ma alla fine non viene afferrata. Novecento puro, caricatura del pensiero debole, nichilismo, certamente non futurismo. Ognuno potrebbe ribellarsi, ci dice Serra. Già, ma nel suo libro nessuno lo fa davvero, se non con le seghe mentali. C’è un puntero uruguagio che, durante il suo lavoro di catalogazione delle esultanze dei calciatori, lo colpisce per la sua esultanza dimessa, quasi impercettibile. Peccato che quasi se ne vergogni, che non voglia darlo a vedere al suo collega sempre ottimista (altra macchietta uscita dalla tastiera di Serra), perché teme poi di doverci avere a che fare, magari andare a intervistarlo, e così trasformare il suo scarno lavoro da 700 euro al mese in qualcosa di più serio. Giulio potrebbe, ma non lo fa. 

 

Serra è furbo, bastava guardare la gallery fotografica su Repubblica.it della sua presentazione alla Feltrinelli di Genova: tra il pubblico molti suoi coetanei, pochi trentacinquenni, pochissimi giovani. Serra sa di scrivere per la sua generazione, e mette in fila per loro i luoghi comuni che si affacciano nella testa dei sessantenni quando vedono una persona camminare per strada guardando il proprio smartphone. “Ognuno potrebbe” non è un romanzo per i trentacinquenni, che solo a fatica ci si riconoscerebbero. La lamentela sulle troppe rotonde che fanno perdere la strada a chi guida è certamente un’esperienza che in tanti hanno fatto, ma funzionava negli anni Novanta, forse. Se il presente è fatto di rotonde e “posti di merda” che l’amico ottimista di Giulio chiama “non luoghi”, il futuro è un’assenza, nella narrazione di Serra. Non compare all’orizzonte mai, non dà respiro ai giorni del protagonista, ma neppure glielo toglie. Semplicemente non c’è.

 

Ci sono molti antidoti a “Ognuno potrebbe”, qui ci permettiamo di suggerirne uno fra i tanti. C’è un poeta americano che ha da poco scritto il suo secondo romanzo, tradotto in Italia da Sellerio. Lui si chiama Ben Lerner, è nato nel 1979 – come il protagonista di Serra – e il suo libro si intitola “Nel mondo a venire”. E’ scritto in prima persona, con più piani narrativi che si intersecano e sovrappongono (è la storia di uno scrittore alle prese con un romanzo che non scriverà, ma che nel cercare di scriverlo di fatto produce quello che il lettore ha davvero tra le mani) e offre un concetto chiave per interpretare il complicato mondo degli over trenta di oggi. Il protagonista è quanto di più contemporaneo possa esserci: angosciato dall’idea di morire (ha da poco scoperto una malformazione cardiaca congenita, potenzialmente fatale), sta attraversando un periodo di insperato quanto fragile successo lavorativo, ha una ragazza a cui vuole bene ma non ama, e un’amica a cui è molto legato che gli chiede di aiutarla a concepire un figlio (con l’inseminazione artificiale, sarebbe troppo strano fare sesso con un amico). Sul presente in cui vive incombe la minaccia dei cambiamenti climatici, ogni uragano che lambisce New York promette sventure che poi non mantiene; i rapporti tra persone sono sfuggenti ma – per quel poco che durano – profondi, molti arrivano da famiglie complicate ma non sono ancora diventati cinici. La crisi si sente anche nelle pagine di Lerner, ha reso tutti più insicuri e nervosi, meno certi di quello che ci aspetta. Eppure in ogni pagina c’è il presentimento di qualcosa che ci attende, che incombe come possibilità non già scritta: “Tutto sarà come prima, solo un po’ diverso”.

 

Quando il protagonista e la sua amica Alex attraversano New York semiparalizzata per un blackout non scoprono quanto è bello lavare i piatti nel lavandino di un bar, ma esplorano le strade, interrogano le biciclette legate ai pali, scrutano le facce della gente, sussultano al suono di un telefonino. Diventano archeologi del presente, del passato e del futuro contemporaneamente, osservano tutto sapendo che può cambiare, che cambierà e già sta cambiando, basta farci attenzione, e viverlo con la traballante baldanza dell’esploratore ispirato dal poeta Walt Whitman. Il romanzo di Lerner è attraversato dai disastri che hanno segnato la sua generazione, primo fra tutti l’esplosione in diretta tv dello Shuttle Challenger, che “ci stava trascinando nel futuro”. Ma non c’è stasi, incertezza o bruttezza della circostanza che tenga: il presente trabocca continuamente nel futuro, e il futuro fa capolino nell’oggi. Il mondo raccontato da Lerner è un già e non ancora continuo, quello di Serra un potrei ma non ho voglia (ed è colpa dello smartphone) che alla lunga ha il fiato corto.

 

La generazione dei trentacinquenni dice io non per narcisismo, ma per un desiderio di protagonismo più profondo di quello che ci hanno consegnato i padri e i maestri alla Michele Serra. E’ vero, è una generazione che osserva i segni senza saperli interpretare (“Ognuno potrebbe” è pieno di spunti lasciati cadere dal protagonista), ma perché si trova consegnati da quella precedenti pochi strumenti per saperlo fare. La generazione dei trentacinquenni è alle prese con i dubbi e le difficoltà che Serra descrive, ma non in modo così banale, né passivo. Prova persino a cambiare il mondo, solo che non lo fa come quarant’anni fa lo voleva fare la generazione di Serra. Per fortuna. Se lui e i suoi contemporanei avessero avuto un iPhone, probabilmente avrebbero fatto meno danni.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.