“E’ l’uso di minacce di morte che ha dato ai musulmani il potere di evitare che scrittori, registi, produttori tv e politici trattino il tema dell’islam”

L'erosione del libero pensiero

Denis MacEoin
Chiunque abbia a che fare con il mondo dell’editoria o abbia interesse per i libri e per la libertà d’espressione sa che cos’è l’Office for Intellectual Freedom dell’American Library Association (Ala), un campione del Primo emendamento e del diritto del pubblico di leggere qualsiasi cosa gli piaccia.

Chiunque abbia a che fare con il mondo dell’editoria o abbia interesse per i libri e per la libertà d’espressione sa che cos’è l’Office for Intellectual Freedom dell’American Library Association (Ala), un campione del Primo emendamento e del diritto del pubblico di leggere qualsiasi cosa gli piaccia, senza interferenze o censure da parte di guardiani dell’innocuo e della purezza sessuale autonominatisi. Ogni anno, l’Ala organizza la settimana dei libri vietati, una celebrazione nazionale della nostra libertà di leggere. E ogni anno pubblica una lista inquietante dei libri “frequently challenged” – inquietante a causa della meschinità e dell’ossessione di chi cerca di vietare libri nelle biblioteche locali, nei consigli delle scuole e persino nelle librerie. Per anni, la maggior parte dei tentativi di vietare libri veniva da parte di fondamentalisti cristiani, a causa di scene di sesso, linguaggio offensivo e “questioni controverse”, qualsiasi cosa questo voglia dire. Dio vieta che chiunque negli Stati Uniti debba avere a che fare con “questioni controverse”. Quest’anno c’è stata una new entry nella settimana dei libri vietati. Elizabeth McKinstry, studentessa della Valdosta State University della Georgia (che in aprile aveva assistito a una scena in cui gli studenti calpestavano la bandiera americana), ha lanciato una petizione sul poster anti censura dell’Ala, definendolo “islamofobo”. Non c’è nulla nel manifesto che riporti a qualcosa che abbia a che fare con l’islam. C’è il volto di una donna, il suo mezzo busto e le sue braccia. Non ha alcun indumento islamico, le braccia e le mani sono nude. Di fronte al volto tiene una copertina di un libro con scritto: “Readstricted”, i suoi occhi si vedono attraverso la copertina e attorno c’è un cerchio rosso, che è il simbolo universale del divieto (il cerchio rosso con la barra bianca). Questo è tutto.

 

Nella sua petizione, la McKinstry scrive: “Questo poster utilizza un immaginario innegabilmente islamofobo della donna in un niqab, sembra fare una comparazione tra l’islam e la censura, con le donne musulmane usate come vittime”. Chiede poi che il poster venga “rimosso immediatamente dallo store dell’Ala” e che “l’Office for Intellectual Freedom porga le sue scuse e spieghi come prevenire l’utilizzo in futuro di immagini discriminatorie”. Per peggiorare le cose, la McKinstrey aggiunge: “Che il poster fosse intenzionalmente o accidentalmente un disegno razzista, resta razzista e alienante”. Si tratta di un esempio di correttezza politica alla massima potenza, ma è ancora più ironico il fatto che la McKinstrey stia studiando per un master in “Library and information science”, lavora come associata di una biblioteca ed è membro dell’Ala. La distorsione del pensiero è qui grottesca: una persona che si definisce progressista cerca di vietare un poster contro la censura in una organizzazione che lavora per eliminare la censura.

 

Il Pen international è conosciuto in tutto il mondo come un’associazione di scrittori. Insieme lavorano senza sosta per la libertà degli autori dalla prigione, dalla tortura, o da altre restrizioni alla loro libertà di scrivere onestamente e polemicamente. Quest’anno, l’American Center del Pen ha voluto presentare il suo premio per la libertà d’espressione al gala del 5 maggio premiando il magazine satirico Charlie Hebdo e consegnandolo a Gérard Biard, il direttore, e a Jean-Baptiste Thorat, un redattore arrivato tardi il 6 gennaio scorso in redazione quando degli islamisti hanno ucciso 12 dei suoi colleghi. Questo è quel genere di cose che il Pen fa bene: sostenere il diritto di chiunque di esprimersi anche quando c’è stata un’offesa.

 

Ma sei membri del Pen, quasi in maniera prevedibile, hanno subito condannato la decisione di dare il premio a Charlie e si sono rifiutati di partecipare al gala: Peter Carey, Michael Ondaatje, Francine Prose, Teju Cole, Rachel Kushner e Taiye Selasi hanno esercitato il loro diritto al doppio standard accusando Charlie di essere offensivo. Kushner ha espresso il suo disagio nei confronti della “intolleranza culturale” del magazine francese. Questo significa allora che il Pen non avrebbe mai dovuto sostenere Salman Rushdie per aver offeso milioni di islamici soltanto esprimendo i suoi sentimenti nei confronti dell’islam? Peter Carey ha espresso il suo sostegno non per Charlie ma per la minoranza musulmana in Francia, parlando della “cecità del Pen nei confronti dell’arroganza culturale della nazione francese, che non riconosce i suoi obblighi morali nei confronti di un segmento largo e senza protezione  della sua popolazione”. Non lo abbiamo mai sentito parlare quando Ilan Alimi è stato torturato a morte per settimane o quando sono stati uccisi gli ebrei a Tolosa. Sembra che voglia dire che il governo francese deve far tacere ogni scrittore o artista che offende le sensibilità estreme di una piccola percentuale del suo popolo. Teju Cole ha sottolineato, durante la strage di gennaio, che Charlie dichiarava di voler essere offensivo nei confronti di tutti ma di recente si è dedicato “specificatamente a provocazioni razziste e islamofobe”. Ma l’islam non è una razza, e il magazine non è mai stato razzista, allora perché tirare fuori questa accusa in risposta alla libertà d’espressione che il Pen ha sempre cercato di difendere?

 

Una risposta saggia e articolata è arrivata dallo stesso Salman Rushdie, ex presidente del Pen: “Se il Pen che è un’organizzazione per la libertà d’espressione non riesce a difendere e celebrare persone che sono state uccise per aver fatto dei disegni, allora questa organizzazione non si merita il suo nome. Vorrei dire a Peter e a Michael e agli altri: spero che nessuno vi venga a cercare”. Ora quelli che hanno firmato una petizione di protesta sono 145. Questi scrittori, alcuni famosi altri no, hanno tirato fuori le loro penne per contestare i princìpi della libertà di parola in una organizzazione che si dedica alla libertà di parola, e molti di loro vivono in una terra che li protegge precisamente perché possono beneficiare del Primo emendamento.

 

Un altro fatto ironico, altrettanto sgradevole, è accaduto il 22 aprile quando, nell’Irlanda del nord, un’autorevole istituzione accademica, la Queen’s University di Belfast, ha annunciato la cancellazione di una conferenza che si doveva tenere a giugno. La conferenza, organizzata dall’Institute for Collaborative Research in the Humanities dell’Università, riguardava la libertà di parola e l’attacco a Parigi contro Charlie. La ragione dell’annullamento è stata: l’istituto non era pronto a sostenere i rischi. Rischi? Rischi di cosa? Della libertà di parola? Che pensiero stupido! No, si è capito che era il rischio di un attacco islamico a Belfast, una città che ha una lunga storia di terrorismo. Poi l’Università ha cambiato idea e ha detto che la conferenza si farà.
Il giorno successivo, l’Università del Maryland ha vietato la visione del film “American Sniper” dopo le lamentele di alcuni studenti musulmani. Che il film sia bello o brutto, la libertà d’espressione è stata spenta.

 

La stranezza oggi è che i giornali, i siti, le radio, le tv sono pieni di storie quotidiane sul caos in medio oriente, sulla minaccia iraniana nell’accesso alle armi nucleari, sulla marcia dello Stato islamico, su Jabhat al Nusra, Hezbollah, Hamas, i talebani, gli shabaab e altre decine di gruppi terroristici che operano nella regione, gli attacchi a Charlie e al supermercato kosher, l’aumento dell’antisemitismo in Europa (strettamente collegato all’islamismo), le manifestazioni che riempiono le strade con i canti “Hamas, Hamas, ebrei al gas” e le altre atrocità che provengono dal revival del fondamentalismo islamico. L’America e l’Inghilterra hanno combattuto, con gli alleati, guerre in Iraq e in Afghanistan, e al momento gli Stati Uniti stanno facendo bombardamenti aerei contro lo Stato islamico in Siria.

 

Storie di questo tipo trovano spazio sui più importanti organi di stampa, e sono perfino più visibili delle notizie di geopolitica durante la Guerra fredda, a causa della grande proliferazione di media giornalistici dagli anni Novanta. I cittadini degli Stati Uniti, dell’Europa, del Canada, dell’Australia e (soprattutto) di Israele non affrontano una minaccia remota da un paese lontano, ma la minaccia quotidiana di essere fatti esplodere nelle strade delle loro città quasi tutti i giorni. I servizi di sicurezza inglesi annunciano la possibilità di un evento terroristico quasi ogni giorno.

 

Ma dove sono i romanzi? Dove sono i Le Carré e i Ludlum, i Fleming e i Clancy? Il numero di romanzi che trattano del terrorismo islamista, o delle minacce sponsorizzate dagli stati alla stabilità del mondo (e dunque alla nostra stabilità e sicurezza) sono così pochi che non ne posso ricordare nemmeno uno. Tutti rimangono nella loro “comfort zone”.
Questo fa pensare. E’ solo una questione di moda, o ci sono ragioni più profonde per questa apparente dimenticanza delle questioni militari e politiche più importanti dei giorni nostri? E’ il sintomo di un fenomeno più grande? La risposta è sì. La cultura occidentale, un tempo costruita sul principio della libertà d’espressione – un principio sancito dal Primo emendamento della Costituzione americana e promosso in tutte le democrazie liberali – è stata indebolita dagli attacchi contro il diritto di ciascuno di parlare liberamente di politica, religione, sessualità e molte altre cose.

 

Il primo colpo alla libertà di espressione è arrivato nel 1989 con le manifestazioni e i riot contro il libro controverso del 1988 scritto dall’autore inglese Salman Rushdie, “I versetti satanici”, e la paura è aumentata quando la Guida suprema iraniana, l’ayatollah Khomeini, ha emesso una fatwa chiedendo ai musulmani di uccidere Rushdie. Molte persone sono morte nei riot o sono state uccise perché associate a quel libro. Le librerie sono state colpite da bombe in America e in Inghilterra, gli editori sono stati attaccati, i rivenditori spesso si sono rifiutati di tenere il libro in magazzino, gli editor hanno scritto ad autori come il sottoscritto chiedendo di decidere se alcuni libri in uscita che trattavano di islam potevano essere pubblicati senza pericoli – la libertà d’espressione era sotto attacco.

 

Ma il colpo più violento è arrivato quando alcuni supposti intellettuali occidentali hanno condannato Rushdie e hanno sostenuto il boicottaggio del suo romanzo. Immanuel Jakobovits, rabbino capo della United Hebrew Congregations del Commonwealth, si è opposto alla pubblicazione del libro. L’arcivescovo di Canterbury ha invocato una legge per la blasfemia che coprisse altre religioni oltre al cristianesimo, aprendo alla possibilità che anche religioni violente come l’islam possano ottenere privilegi che le mettano al di sopra di altri attori sociali in una democrazia. Purtroppo, questo tradimento della libertà d’espressione da parte di pensatori occidentali si è ripetuto molte volte da allora.

 

Che impatto ha avuto tutto questo? Ecco un esempio semplice: nel 2012 è nata una controversia nei circoli ecclesiastici americani. Tre editori cristiani conosciuti, Wycliffe Bible Translators, il Summer Institute of Linguistics (Sil) e Frontiers sono stati accusati di aver assecondato i musulmani nelle loro nuove traduzioni del Nuovo testamento in arabo e turco. I traduttori avevano rimpiazzato termini come Padre e Figlio per assecondare la dottrina coranica secondo cui Dio non ha un figlio e non è padre di nessuno. Nelle traduzioni in turco di Frontiers e del Sil, la parola “guardiano” sostituisce “Padre” e “rappresentante” o “delegato” è usato per “Figlio”. Questi problemi non hanno fermato i primi traduttori della Bibbia in linguaggio islamico da una definizione onesta di uno dei fondamenti della dottrina cristiana. Ma oggi, la paura di una reazione per un’affermazione “blasfema” ha soggiogato la volontà di resistere per il proprio credo, per i propri valori e per il diritto di espressione. Questa paura ha reso gran parte dell’occidente sottomesso, esattamente come l’islam – sia nel suo nome, che significa “sottomissione”, sia nelle sue dichiarazioni – desidera.

 

Da allora, gli attacchi da parte degli islamisti a questi basilari princìpi occidentali – il punto centrale della vera democrazia e la caratteristica che la distingue dai totalitarismi di ogni forma – si sono moltiplicati, e sono culminati nella mattanza fatta da estremisti musulmani nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi il 7 gennaio del 2015.

 

Sotto agli sporadici attacchi fisici giace un più profondo livello di coercizione: la paura di commettere quello che sembra il più imperdonabile crimine di tutti, l’“Islamofobia!”. Ormai sembra che tutto quello che è non musulmano possa attirarsi questa accusa – aggravata dalle accuse di razzismo. La semplice critica a un credo religioso condiviso da persone che abitano soprattutto nel Terzo mondo è stata collegata, senza giustificazioni, al loro genuino pregiudizio contro gli abitanti del mondo sviluppato. Ma siccome sono i musulmani a decidere cos’è “islamofobia”, spesso a capriccio, anche l’obiezione più blanda può portare a serie accuse, azioni legali e attacchi criminali.

 

Nel caso del romanzo di Sherry Jones, “The Jewel of Medina”, storicamente “rivisto” per essere simpatetico con l’islam, Random House nel 1988 cancellò la sua pubblicazione. Il portavoce disse che alla casa editrice era stato “consigliato di cautelarsi non solo perché la pubblicazione del libro avrebbe potuto essere offensiva per qualcuno nella comunità musulmana, ma anche perché avrebbe potuto incitare atti di violenza da parte di una piccola frangia estremista”. Questa volta, la condanna non era arrivata sotto forma di fatwa da parte della Guida suprema dell’Iran, ma da parte di un accademico occidentale, di cui non conosco l’identità. Il 28 settembre del 2008 l’estremista britannico Ali Beheshti e due complici hanno dato fuoco alla casa del proprietario della casa editrice inglese che aveva comprato i diritti per “The Jewel of Medina”. Per fortuna nessuno è stato ucciso. Ma la morsa della sottomissione al giogo islamico si stava stringendo intorno al collo del mondo libero.

 

[**Video_box_2**]Rushdie sapeva di essere controverso. Per quelli che protestavano, gli attacchi contro di lui, sebbene condannabili, avevano una loro logica bizzarra. Ma le condanne da parte di accademici, giornalisti, religiosi interconfessionali e politici occidentali mostrano non il successo dell’intimidazione, ma quanto siamo diventati timidi e codardi. Arrenderci a questa viltà può solo significare che siamo entrati nella prima fase del declino dei valori dell’illuminismo che hanno reso l’occidente il più grande sostenitore dei valori umani e della libertà nella storia. Le critiche all’islam e a tutto il resto continueranno – come è giusto –, da parte di scrittori e giornalisti coraggiosi. Sicuramente, sappiamo quante volte i politici degli Stati Uniti e dell’Europa hanno cercato in maniera delirante di persuaderci che la violenza islamista “non ha niente a che vedere con l’islam”.

 

Ci sono già stati molti attentati e omicidi. Forse il più conosciuto, fino al massacro a Charlie Hebdo, è stato l’omicidio del regista olandese Theo van Gogh, il 2 novembre del 2004 (…). Il killer di Van Gogh, un marocchino-olandese di 26 anni chiamato Mohammed Bouyeri, che oggi è sotto ergastolo, ha descritto la democrazia come un abominio per l’islam. (Questa visione è condivisa da molti musulmani. Per loro la democrazia, opera dell’uomo, è illegittima davanti alla legge della sharia, opera di Allah, e unica forma legittima di governo). In tribunale Bouyeri disse che “la legge (della sharia) mi impone di tagliare la testa di chiunque insulti Allah e il profeta”.

 

La minaccia di omicidi è diventata ancora più reale. Non è più possibile sminuire le minacce di morte da parte di musulmani come opera di “lupi solitari”, “personalità deviate” o maniaci di attenzioni. E’ l’uso di minacce di morte che ha dato ai musulmani il potere di evitare che scrittori, registi, produttori tv e politici trattino il tema dell’islam. La minaccia di chiamare le persone “razziste” come uno strumento di soppressione delle voci critiche ha gettato un’ombra sulla normale vita democratica. Alcuni sono morti per essersi espressi liberamente sull’islam, altri devono affrontare l’ostracismo, la prigione, la fustigazione o la perdita di una vita normale (…).

 

Nessun intellettuale cristiano sarà mai processato per aver detto che i Vangeli contengono delle contraddizioni, nessun ebreo riformista sarà chiamato in giudizio per aver criticato il credo degli ultraortodossi, nessun politico sarà portato davanti alla legge per aver denunciato le ideologie del comunismo e del fascismo. Si può dire che Karl Marx aveva torto e che il presidente americano è terribile, e così via, senza temere per un momento l’assassinio o la prigione. Questioni come la promessa del leader del Labour inglese, Ed Miliband, di fare dell’islamofobia un “hate crime” (senza nemmeno definire cos’è l’islamofobia), illustrano il risultato più pericoloso del movimento islamista e del suo vittimismo: ci ha fatto chiudere in noi stessi, ci ha fatto abbandonare il nostro impegno nei confronti della libertà di espressione, l’apertura dell’indagine accademica, la prontezza a mettere in dubbio qualsiasi cosa – le caratteristiche che ci hanno resi forti nel passato.

 

Se non invertiamo questo trend di sottomissione, la censura, le leggi sulla blasfemia e tutti i gravami del totalitarismo torneranno nelle nostre vite. I bulli l’avranno vinta, e l’illuminismo tramonterà. Il politicamente corretto e la legge della sharia governeranno. Sarebbe tragico se questa paura priva di senso ci facesse commettere questo crimine contro noi stessi.

 

Pubblichiamo un articolo dal titolo “The erosion of free speech” apparso sul sito del Gatestone Institute, think tank di politica internazionale guidato dall’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite John R. Bolton.

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