Filippo Magnini (foto LaPresse)

Magnini è una vittima del circo mediatico giudiziario, non un eroe

Simonetta Sciandivasci

Il Re Magno riabilitato per un giorno dopo avere salvato un uomo che stava per affogare

Roma. Domenica pomeriggio, a Cala Sinzias, in Sardegna, Filippo Magnini ha salvato la vita a un uomo che stava per annegare. Ha fatto prima dei bagnini, che l’avevano avvistato e lo stavano raggiungendo a bordo del gommone di salvataggio. “Le bracciate altruiste di Filippo Magnini che salva un bagnante”, ha scritto la Repubblica. “Eroe”, hanno scritto in tanti su Facebook. “L’importante è che stia bene”, ha detto lui, un bronzo olimpico e due medaglie d’oro nei 100 metri ai Mondiali, una nel 2005 e l’altra nel 2007, quando lo chiamavamo Re Magno, e scrivevamo che era il miglior stileliberista italiano di sempre.

  

Due anni fa però è finito “coinvolto” in un’inchiesta sul doping della Procura di Pesaro e via scettri e corone, che in questo paese valgono sempre poco, diciamo lo spazio di un mattino, di un titolo, e quanto più sono intensi e retorici, tanto più si rivelano rivedibili, cancellabili. Non pensiamo mai a quel verso di Guccini che fa “un eroe si perdeva e qualcosa finiva”: preferiamo sentenziare.

 

A novembre scorso la vicenda giudiziaria di Magnini si era conclusa con una squalifica di quattro anni dall’attività agonistica, decisa dal Tribunale nazionale antidoping, per tentato doping (il procuratore nazionale Pierfilippo Laviani aveva chiesto otto anni, giustizia penale aveva invece detto che Magnini non andava neppure iscritto al registro degli indagati). Significa che Magnini non si era dopato, né aveva spacciato sostanze dopanti, come alcune intercettazioni avevano lasciato credere – in alcune diceva al dottor Guido Porcellini, suo fidato consulente, indagato anche lui: “Sono giù fisicamente, hai voglia di aiutarmi?” e “mandami quei dati per il mio amico”. Lui aveva reagito annunciando ricorso e dicendo che la sentenza era “ridicola”, che qualcuno aveva deliberatamente deciso di perseguitarlo, e aveva detto di essere “un esempio nello sport”, come aveva fatto Cristiano Ronaldo quando Kathryn Mayorga lo aveva denunciato per stupro.

 

A maggio di quest’anno, il collegio di secondo grado ha confermato la squalifica, senza sconti, e lui ha, appellandosi al terzo grado della giustizia sportiva ha continuato a dirsi innocente, allibito, sconfortato. Ha detto: “Non sono né un pedofilo né un delinquente ma mi hanno trattato come tale” e anche di sentirsi “un appestato”, d’essersi abituato a camminare a testa bassa e di pensare, quando lo fermano per strada e gli chiedono una fotografia, che non sappiano cosa gli è successo – e che impressione sentire un uomo di trentasette anni parlare con tanto scoramento. Dev’essere per questo che è stato molto schivo con chi ha cercato di strappargli dichiarazioni, domenica, quando sembravano tutti desiderosi di incoronarlo ancora: deve aver pensato che lo facevano senza cognizione del passato, per clamore, per riempire lo spazio di un mattino. Ha evitato di farsi portare in trionfo, avendo imparato a sue spese che i carri sono di cartapesta. Dopotutto ha fatto quello che doveva fare: c’era un uomo in difficoltà, gli ha salvato la vita. Se servirà o meno a riabilitare la sua immagine chi lo sa, i fan a conoscenza dei fatti ci stanno provando (e giustamente i fan ricordano che pochi giorni fa il tribunale di Pesaro ha condannato per doping Guido Porcellini, 50 anni, ex medico di Filippo Magnini, riconoscendo però che, diversamente da quanto sostenuto dall'accusa, non è dimostrato che Porcellini cercò di vendere prodotti dopanti a Magnini). Perché è questo il paradosso di quando attorno alla giustizia si fa troppo chiacchiericcio e s’alimenta quella cosa che chiamiamo, ormai quasi stancamente, circo mediatico giudiziario: per contrastarla, trasformiamo l’ovvietà in eroismo.

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