L'eruzione dell'Etna (foto LaPresse)

Ora chi può deve dare una mano a Catania

Nadia Terranova

Il rapporto di amore e paura tra i catanesi e il vulcano che erutta e fa tremare la terra all’improvviso

"Lo Stretto è per voi messinesi quello che l’Etna è per noi catanesi", mi ha detto una volta un’amica, “lo stesso rapporto di appartenenza, amore e paura: l’amore te lo ricordi tutti i giorni e la paura solo ogni tanto, però è sempre lì”. E’ vero. Noi amiamo la lingua d’acqua da cui potrebbe partire l’onda gigante che ci riseppellirà, loro il vulcano dalla vita sotterranea e imprevedibile, a ciascuno il suo, a ciascuno un pezzo di natura che dal finestrino fra le nuvole, in atterraggio, produce il pensiero: sono tornato a casa. Per entrambe le città l’altra faccia della bellezza è l’avvisaglia, e per entrambe il pericolo è spiegato dai miti: sott’acqua Colapesce, dritto come una colonna, quando cambia la spalla con cui sostiene Messina la fa tremare di terremoto, e intanto fra i crateri del Mongibello re Artù protegge Catania ma ogni tanto, nostalgico, torna nelle sue terre nordiche lasciando il vulcano incustodito. Bisogna pur raccontarsi la storia di una Zancle più volte rasa al suolo e quella di una Katané sempre ridisegnata dalle eruzioni, ma se le scosse fanno solo paura, la muntagna non trascura mai di farci vedere che è anche bellissima. Ha tenuto a ricordarcelo il pomeriggio del 24 dicembre, quando in rete giravano le foto di una raggiante Catania in una vigilia che somigliava a un solstizio d’estate, il cielo terso invaso dalla nuvola cupa (“nevica cenere” scrivevano i catanesi, “arriva fino allo Stretto”, rilanciavano a Messina). Erano foto da ogni angolazione, da abitazioni, strade e belvederi, scattate con paura, abitudine, emozione e orgoglio. Tutto vero, e tutto insieme. Del resto l’Etna è più instagrammabile della granita, e poi innervosita dalla cena di Natale, frivola e in posa davanti all’obiettivo, era così ipnotica, era una di noi. Restava il dubbio: sarà lecito scherzare su un vulcano attivo? E se fra un’ora, sei ore, domani, dopodomani arriva la tragedia, quanto ci pentiremo di quello che abbiamo condiviso? Allora io, messinese, sbirciavo i catanesi: e loro scattavano, postavano e condividevano. E’ il sublime kantiano, la possibilità della catastrofe che ti rimette a posto, ti dice che non sei nuddu, non sei nenti, ti rimpicciolisce e insieme ti sconvolge. La meraviglia non rende meno vera la paura, né la sdrammatizza. Semplicemente, c’è anche lei.

 

Poi, per Santo Stefano, sono arrivate le scosse. Telefono a Gaetano, che su Facebook scrive “mi sono cacato sotto”, per chiedergli se va tutto bene: “Stavo tornando a casa, mi ero regalato il mio Philip Roth, stavo leggendo il saggio su Soul Bellow ma poi non potti essiri”. Gaetano è catanese in purezza: non è potuto essere, che vuoi fare. Significa che qualcosa è successo davvero. Scrivo alle mie amiche o le trovo sui social: sono loro a tranquillizzare me, a volte ironizzano, è un esorcismo che conosco bene.

 

Mi dicono, e ci diciamo, che a Fleri e negli altri paesi etnei dove sono crollati gli edifici e c’è chi è stato estratto dalle macerie (le notizie arrivano ancora mentre scrivo) non è stato certo solo spavento. Adesso è tempo di pensare a chi ha perso casa perché a loro non penserà nessuno. Conosciamo le insufficienze istituzionali dopo le catastrofi, purtroppo esistono da prima che Salvini si facesse i selfie con la Nutella e non si risolvono con un tweet indignato né passando la giornata a scrinsciottare le sue imbecillità. Ora chi può deve dare una mano e chi non può deve darla lo stesso, ora bisogna che si parli tutti i giorni di chi ha perso una casa finché non la riavrà, e intanto, mentre ci raccontiamo i miti per far passare la giornataccia, speriamo che Artù si decida a tornare.

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