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Quelle 50 mamme costrette a rimanere in carcere con i loro figli

Redazione

Una donna reclusa a Rebibbia ha lanciato i figli dalla scale. Il ministro Bonafede ha sospeso il direttore. I dati di Antigone e il disinteresse della politica che non riesce a trovare soluzioni alternative alla carcerazione

Erano circa le 12 di ieri (18 settembre) quando una donna tedesca di 31 anni detenuta nel carcere di Rebibbia ha scaraventato i suoi due figli dalla tromba delle scale della sezione nido. La bambina di 6 mesi è morta sul colpo, mentre il bimbo di poco più di due anni è stato dichiarato clinicamente morto all'ospedale Bambino Gesù. I medici della struttura ospedaliera si stanno attivando per la donazione degli organi. La donna che – secondo quanto si apprende da fonti interne al carcere – già in passato avrebbe manifestato alcuni disagi psichici, era reclusa nel carcere romano dal 27 aprile scorso per spaccio di sostanze stupefacenti. 

 

Secondo il quattordicesimo rapporto sulle condizioni di detenzioni dell'Associazione Antigone, sono 2.402 le donne recluse nelle carceri italiane, delle quali 52 mamme con 62 figli. A Rebibbia, ad agosto, le madri recluse nella sezione femminile erano 13 con 16 bambini.  

 

 

Il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha visitato la struttura penitenziaria e ha annunciato che il ministero della Giustizia ha aperto un'inchiesta interna sulla vicenda. "È una tragedia. La magistratura – ha dichiarato – sta già facendo gli accertamenti, posso soltanto dire, e non posso aggiungere nient'altro, che chiaramente il ministero ha già aperto un'inchiesta interna per verificare le responsabilità". E intanto ha sospeso dal servizio il direttore della casa circondariale femminile di Roma-Rebibbia Ida Del Grosso, la sua vice, Gabriella Pedote, e il vicecomandante del reparto di Polizia penitenziaria, Antonella Proietti.

  

In attesa che la giustizia verifichi le responsabilità, a emergere in questa vicenda è soprattutto un dato: la bassa incidenza di madri carcerate che vivono con i propri bambini all'interno delle strutture penitenziarie italiane, solo lo 0,09 per cento del totale. Cinquantadue madri che "certamente non mettono a rischio la sicurezza degli italiani e quindi si potrebbero tranquillamente trovare alternative diverse al carcere", dice al Foglio l'Associazione Antigone. Ma se già il tema carcere non gode di grande interesse nel mondo politico "quando si parla di misure alternative alla carcerazione l'interesse è ancora minore. Ad esempio nella scorsa legislatura il senatore Luigi Manconi aveva provato ad avanzare proposte per risolvere questo problema, ma le sue proposte erano state tutte messe da parte".

  

Al momento in Italia gli istituti esclusivamente dedicati alle donne sono appena cinque: Empoli, Pozzuoli, Roma “Rebibbia”, Trani, Venezia “Giudecca”. Nel resto del paese la loro detenzione è affidata a reparti ad hoc (52 in tutto) ricavati all’interno di carceri maschili. La pochezza di strutture riservate comporta un altro problema, ossia quello delle detenzione delle mamme all'interno delle strutture carcerarie. Si legge nel rapporto di Antigone che "per tentare di attenuare le conseguenze negative della permanenza in carcere dei bambini, la legge n. 62 del 21 aprile 2011 ha previsto la creazione di istituti a custodia attenuata (Icam) dove collocare le detenute madri con i propri figli. Queste strutture sono concepite, almeno sulla carta, per creare una atmosfera di casa 'normale', più simile a un asilo che a un carcere, in modo da evitare ai minori i traumi della detenzione. In Italia, oltra all’Icam di Milano, che ha svolto il ruolo di apripista nel 2007, sono già attivi quello di Venezia, Senorbì (in provincia di Cagliari) e Torino. In altri istituti, come Rebibbia a Roma, sono previsti solamente asili nido all’interno delle sezioni femminili". In queste strutture possono stare le mamme con bambini sino a tre anni di età poi, compiuti i tre anni, questi sono affidati o a un familiare oppure a una casa famiglia.

  

Un'altra problematica segnalata da Antigone è che in queste sezioni psicologi e assistenti sociali sono gli stessi che lavorano nella struttura, "che già sono in sotto numero, quindi impossibilitati a seguire in modo proficuo i detenuti. Da anni insistiamo con le istituzioni sulla necessità di un incremento del numero di assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali ma al momento le nostre richieste non sono state prese in considerazioni".

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