I vigili del fuoco portano la bara di una delle vittime del terremoto per i funerali solenni di Amatrice

Un'identità sgretolata ma ancora parlante

Manuel Orazi

Mentre ad Amatrice si celebrano i funerali delle vittime del terremoto è bene fare una ricognizione storica e artistica dei luoghi colpiti dal sisma. Devastati ma ancora vivi.

Mi sembra che gli italiani fatichino a focalizzare i luoghi del terremoto, capitato com’è sul dorso di più di un confine amministrativo. I confini più intrecciati sono  da sempre quelli dell’Italia centrale. Se al nord c’è il Po che fa da diga sicura per le distanze e al sud ci sono i vecchi e immani latifondi, al centro tutto s’è ingarbugliato per le ataviche lotte intestine fra comuni e signorie. Se all’estremo nord delle Marche ben sei comuni della Valmarecchia sono passati alla Romagna con un referendum nel 2006, dai Montefeltro ai Malatesta cioè, pochi anni or sono ad Amatrice avevano cominciato a raccogliere le firme per passare sotto Ascoli Piceno, ma non per motivi etnici o linguistici. Semplicemente perché da sempre l’ospedale, le scuole e il consorzio agrario più vicini sono quelli ascolani, quindi per i servizi più che per il genius loci.

 

Per sciogliere il nodo gordiano dei confini intrecciati basta ripercorrere la biografia del pittore, scultore e architetto manierista Nicola Filotesio, meglio noto come Cola dell’Amatrice: attivo ad Ascoli Piceno, L’Aquila e Norcia oltre che nel paese natio: un collezionista di epicentri sismici. Definito dagli storici pittore “dal bagaglio culturale umbro-romano con radici abruzzesi”, sodale e seguace però degli urbinati Bramante e Raffaello, Cola, che pure ha affrescato a Roma alcune stanze di palazzo del cardinal Raffaele Riario, dedica uno dei suoi primi dipinti al Beato Giacomo della Marca, protettore appunto della Marca d’Ancona sebbene il quadro si trovi tuttora ad Ascoli, e progettato fra l’altro la chiesa di Santa Maria Della Carità ad Arquata del Tronto (1532) nonché, nello stesso anno, la facciata del Duomo di Ascoli Piceno (1532) oltre che San Bernardino all’Aquila che conserva ancora oggi le spoglie del santo patrono di Siena. Quando Cola nacque ad Amatrice la città era occupata dagli aquilani e quindi ricadeva sotto lo stato delle Due Sicilie: fu infatti secoli dopo Mussolini ad allargare i confini del Lazio, inglobando questo lacerto d’Abruzzo così come Rieti che fino al 1927 era in provincia di Perugia e parallelamente pezzi della Toscana (vedi il monte Fumaiolo dove nasce il Tevere) in Romagna per dare più risalto a Forlì, la provincia del duce. Sempre Cola fu incaricato nel 1529 di ricostruire la sua città natale distrutta nella contesa fra Angioini e Aragonesi, giusto un secolo prima di quel terremoto che – di nuovo – distrusse nel 1639 Accumoli e Matrice (questo il suo nome fino all’800 e da qui il dilemma sulla grafia della pastasciutta: alla matriciana o all’amatriciana?).

 

In ogni caso è triste sentire i giornalisti di Radio Rai romanizzare il terremoto, tirare a ovest la coperta dell’immaginario dicendo che Visso o Castelsantangelo sul Nera si trovano in Umbria mentre sono nelle Marche: così come fino al 1861 Gubbio o Amandola (travolta anch’essa dal sisma, l’ospedale e il campanile della chiesa di S. Francesco sono crollati) erano in provincia di Macerata, paradossale capoluogo della Marca d’Ancona che i Savoia vollero ridimensionare per troppa vicinanza al Papa. Nelle province di Fermo e Macerata, nessuno lo dice, ci sono stati crolli e centinaia di sfollati e decine di chiese e scuole chiuse, altre scosse intanto, mentre scriviamo, continuano a far ballare i tavoli, i letti e gli armadi come in un film di Walt Disney.
Lo stesso Cola dovette sfollare da Ascoli perché amico del Guiderocchi, signorotto locale inviso a Paolo III Farnese e perse la moglie nella fuga come racconta Vasari nelle sue Vite, andando a lavorare a Perugia e Città di Castello prima di poter tornare a casa. La spartana statua di Cola crollata anch’essa ad Amatrice, è dunque la metafora dei terremoti agostani dell’Italia centrata: quella di un’identità sgretolata ma ancora parlante.