I miei terremoti

Guido Ceronetti
Non sono molti, ma può bastare. Quello ultimo dell’Appennino mi ha svegliato, la casa aveva un tremolio insolito ma ho potuto riaddormentarmi. Nel centro Italia si convive con l’irrequietezza sismica.
Non sono molti, ma può bastare. Quello ultimo dell’Appennino mi ha svegliato, la casa aveva un tremolio insolito ma ho potuto riaddormentarmi. Nel centro Italia si convive con l’irrequietezza sismica. I più significativi tra i miei ricordi furono un interminabile sciame sismico nei Castelli Romani dove abitavamo, fino a che ci decidemmo ad andare ad abitare per mezza giornata circa a Roma, dove affittavamo due stanze. Certi giorni (era estate) non riuscivo, per l’ossessività delle scosse, a mangiare di giorno dentro casa: ci portavamo il piatto al portoncino di entrata della casa, la scossa con molta probabilità ci visitava ma era in quel punto pochissimo avvertita. Durò a lungo, cessò forse al termine dell’estate quando il canto all’aria libera dei grilli vinse il tremito brutale della terra.

 

Il terremoto durante un soggiorno di due mesi d’inverno, di seguito, ad Assisi, era costantemente nella nostra stanza. Credo fossero gli anni 70 e 71. Mi ero ritirato in quel luogo perché sapevo con certezza che non ci sarebbero stati i botti di Capodanno che erano l’incubo di quasi tutte le città e le località italiane. Assisi ne fu risparmiata fino ad uno degli anni successivi. Adesso quel modo micidiale e anche sanguinoso di vivere il Capodanno è soprattutto la sventura di Napoli e delle altre città meridionali. Via via il nord è andato riscattandosi: è una delizia, questa, che oggi è riservata perlopiù ai quartieri dove più folti sono ospitati nord-africani e orientali.

 

Ad Assisi in quegli inverni mi ero ritirato per scrivere una favola esoterica, illustrata da mia moglie Erica, il cui titolo mi costò un lungo travaglio; alla fine venne fuori Aquilegia perché l’aquilegia è il fiore mistico che compare quasi sempre nelle pitture leonardesche col significato di Amore Perfetto. Quella perfezione amorosa non ci fece abbandonare il rifugio di Assisi a causa delle scosse ma dormivamo con le valigie pronte sistemate nel bagno. La scossa arrivava puntuale anche più volte per notte, ci svegliava ogni volta ma il callo era ormai fatto, sebbene non credessimo nella protezione di San Francesco, che anni dopo non protesse neppure la sua meravigliosa Basilica Superiore, unica per gli affreschi giotteschi.

 

Per il terremoto dell’Umbria del 1997, abitandone ai confini, mi mandò in esplorazione il mio giornale di allora “La Stampa”. Mi colpì soprattutto la desolazione di Nocera dove non rimaneva neppure un abitante e le case erano strettamente sorvegliate dai Berretti Rossi della Guardia di Finanza. Un pompiere o uno di quei ragazzi mi fece visitare la cittadina con un casco adeguato, e posso immaginare come siano ridotte oggi le città dell’Appennino piallate e come buttate via dal terremoto del 24 agosto e dei giorni successivi.

 

Per un accanito spiritualista e vagabondo di archetipi, come mi ritengo, il terremoto (terrae-motus) è inaccettabile per l’onnipotenza delle forze materiali che dispiega; è materia che cola che ti sbatte che ti fa sentire, così ultratecnologici come siamo, di una fertile assoluta impotenza. Ho letto recentemente con senso di disperazione quel che dell’uomo primitivo tratta Roberto Calasso nel suo Cacciatore Celeste, l’obbrobriosa possessività del Deus sive Natura nei confronti della sua creatura più persa, trattata come le nostre ricche suole trattano le formichine. Il terremoto non si concilia con nulla di spirituale: è un urtone tremendo e niente altro. Il Colosso di Goya col suo pugno alzato ne dà un’immagine che si avvicina.

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