speciale 7 ottobre

Cosa ci ha insegnato il 7 ottobre sulla libertà d'espressione, e i suoi doppi standard

David Parenzo

L’orrore non raccontato ha lasciato spazio al racconto alternativo. E la memoria del 7 ottobre rischia di essere sepolta. Lo scandalo Israele e qualche lezione

Dopo il 7 ottobre abbiamo imparato diverse cose, ma due, a mio avviso, sono le più significative: le storie non sono mai neutre e il “free speech” va bene, ma solo se dici che Israele è il nuovo Terzo Reich. “Niente è meno innocente di una storia” scrive Jonathan Gottschall ne Il lato oscuro delle storie. Le storie ci seducono, ci modellano, ci plasmano. Ci incatenano senza che ce ne accorgiamo. Ecco perché il pogrom del 7 ottobre 2023, con i suoi orrori indicibili – bambini bruciati vivi, famiglie massacrate nei kibbutz, rapimenti – rischia di avere avuto un destino narrativo paradossale: restare invisibile.

Gottschall ci ricorda che “siamo drogati di storie, incapaci di vivere senza un racconto che organizzi la realtà. Ma se una verità non si accompagna a un racconto, scivola via, non lascia traccia”. Ed è proprio quello che è accaduto. Il 7 ottobre è stato un fatto brutale, di cui abbiamo visto soltanto pochi frammenti, per una precisa scelta del governo israeliano. Le immagini non sono state diffuse, solo mostrate a porte chiuse a pochi giornalisti selezionati, senza possibilità di riprese o fotografie. Una scelta dettata da prudenza, da sensibilità verso i parenti, dal timore di urtare l’opinione pubblica con immagini insostenibili. Il risultato però è stato un effetto collaterale imprevisto: la strage non è entrata nell’immaginario collettivo. Quello spazio narrativo, lasciato vuoto, è stato occupato quasi subito da un altro frame: la reazione militare di Israele a Gaza. La reazione ha oscurato l’azione originaria.

   

Gottschall ammonisce che “la mente narrativa non tollera il caos, ha bisogno di significato. Se la verità è muta o rimane invisibile, altri inventeranno storie, anche false, ma convincenti”. E così è stato. L’orrore non raccontato ha lasciato spazio al racconto alternativo: quello della sproporzione, della vittima che diventa carnefice, del solito David e Golia con i ruoli ribaltati. E ancora Gottschall scrive: “Gli esseri umani non si lasciano spingere all’azione da scariche di dati, da slide di PowerPoint dense o da fogli di calcolo pieni di cifre. Le persone si muovono grazie alle emozioni. Il modo migliore per coinvolgerle emotivamente nella nostra agenda comincia con: ‘C’era una volta’”. Israele ha mostrato numeri, rapporti ONU, tonnellate di aiuti entrati a Gaza. Tutto vero, tutto documentato. Ma non è bastato. Perché i dati non emozionano, e senza emozioni la verità non mobilita. La lezione è drammatica ma chiara: non basta avere ragione, bisogna raccontarla. Bisogna trasformare i fatti in storie, dare un volto e un nome alle vittime, raccontare la famiglia di Be’eri annientata, i bambini di Sderot costretti a crescere nei rifugi, le comunità che tentano di ricostruirsi nonostante il trauma. Solo storie buone possono contrastare storie tossiche. E Gottschall lo dice esplicitamente: “Le storie non sono soltanto un modo per intrattenerci. Sono uno strumento per controllare il mondo, plasmare le società, giustificare la violenza e nascondere la verità”. Il lato oscuro delle storie è esattamente questo: possono cancellare la realtà.

  

Il secondo insegnamento del dopo 7 ottobre riguarda invece la libertà di espressione e il suo doppio standard. Perché slogan antisemiti nelle piazze sono considerati legittima espressione politica, ma se difendi Israele diventi automaticamente un guerrafondaio. Attaccare l’Occidente è un atto di coraggio, criticare i cortei filo Hamas è da fascisti. Nulla di nuovo. Dopo l’11 settembre, Massimo Fini — un Orsini ante litteram, ma molto più colto e persino più simpatico — pubblicò Elogio del mullah Omar, dove descriveva l’Afghanistan talebano come un mondo arcaico e duro ma autentico, in contrasto con un Occidente corrotto e consumista. La fascinazione per chi vuole distruggere l’Occidente è da sempre una costante interna all’Occidente stesso.

   

E torniamo all’oggi: a Londra e a Torino migliaia di persone hanno scandito “From the river to the sea, Palestine will be free”. A Marsiglia si sfilava con cartelli “Netanyahu = Hitler”. A Berlino i cortei intonavano “Intifada fino alla vittoria”. A New York, davanti a Columbia University, si gridava “Globalize the intifada”. Tutto legittimo, tutto sotto il cappello della libertà di espressione. Ma se un leader occidentale difende Israele, il trattamento diventa opposto. Antonio Tajani definì Hamas “i nazisti del nostro tempo”. Bastò una frase per essere accusato di islamofobia. Se paragoni Netanyahu a Hitler sei un intellettuale engagé, se paragoni Hamas al nazismo sei un guerrafondaio.

  

In Italia la Global Sumud Flotilla ha visto imbarcarsi circa quaranta italiani. E poi c’è stata lei, la Selvaggia “omen nomen”: invitata a salire, ha declinato “per paura di morire e per non rubare la scena”. Poi però, con contratto in tasca a Ballando con le stelle, ha trovato il modo di esserci comunque: spilla palestinese in diretta Rai, nella Rai delle destre. Una staffetta partigiana 4.0, ma griffata e a gettone, coraggiosa al ritmo di cachet.

   

La contraddizione si ripete ovunque. In Germania il Bundestag ha vietato simboli pro Hamas, ma nello stesso Paese Jürgen Habermas ha difeso il diritto degli studenti a “condannare pubblicamente i crimini di Israele”. Negli Stati Uniti Harvard e Columbia hanno protetto i boicottaggi accademici di Israele come “libertà di coscienza”, ma hanno imposto vincoli quando si trattava di commemorare le vittime israeliane del 7 ottobre. In Italia, in piazza Duomo a Milano, si gridava “Netanyahu assassino” e “Boicottiamo Tel Aviv”. Nessuno scandalo, tutto diritto di critica. Ma se in un talk show denunci l’antisemitismo di “From the river to the sea”, subito diventi censore.

  

Il 26 settembre 2025, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Netanyahu ha ribaltato il tavolo. Ha detto che Hamas, Hezbollah, Iran e Houthi non minacciano soltanto Israele, ma l’intero Occidente: “Erano fatti non solo per distruggere Israele. Erano fatti per minacciare gli Stati Uniti e ricattare le nazioni ovunque”. Non bastavano le parole. Netanyahu ha fatto parlare la sua giacca: sul bavero portava un QR-code. Scansionato, mostrava immagini e filmati del massacro del 7 ottobre. È stato aperto oltre un milione di volte, persino da Gaza e dall’Iran. Non era un vezzo scenografico, ma un’arma retorica. In un Paese in cui vige la censura militare, molte foto delle vittime erano state bloccate per non turbare l’opinione pubblica. Mostrandole all’ONU con un codice digitale, Netanyahu ha trasformato la censura in messaggio: “Queste sono le immagini che non volevano farti vedere”.

  

Il QR-code appuntato sulla giacca del premier è diventato l’emblema di questa guerra di narrazioni. Da un lato, piazze e campus protetti dal free speech che urlano “Death to Israel”. Dall’altro, un capo di governo costretto a ricorrere a un pixel per rompere il silenzio, un predicatore digitale nel tempio dell’ipocrisia. Non possiamo permettere che la memoria del 7 ottobre venga sepolta dal rumore delle altre storie. Perché la storia più terribile, quella vera, rischia di essere dimenticata se non diventa racconto.