Il cancello d'ingresso di Auschwitz con la scritta Arbeit Macht Frei (Foto di Beata Zawrzel/NurPhoto via Getty Images) 

Il nostro eterno presente che disinnesca il Giorno della Memoria

Guido Vitiello

La Shoah non è un passato storico a cui guardiamo storicamente; piuttosto, ne abbiamo fatto un Mystery Play medievale con alcuni ruoli fissi che usiamo di volta in volta come caselle vuote. Parte del problema può essere anche nel modo in cui commemoriamo ritualmente la liberazione di Auschwitz

Che cosa non ha funzionato, che cosa non funziona nel Giorno della Memoria se il 27 gennaio è diventato il palcoscenico più ambìto da chi vuole proclamare al mondo che Israele è la nuova Germania nazista e che è in atto una Shoah del popolo palestinese, magari prendendo in ostaggio l’incolpevole Primo Levi e annettendolo abusivamente alla propria causa? Se lo è chiesto Giovanni Belardelli sul Foglio di sabato scorso, e io voglio far mia la sua domanda, che non è moralistica ma pragmatica. Sospetto che una parte della risposta sia in una vecchia osservazione di Alain Finkielkraut, secondo cui viviamo sotto il duplice impero di un presente perpetuo e di un passato ridotto alla Shoah. Siamo così appiattiti sull’attualità che non sapremmo dire con certezza cosa è successo ieri pomeriggio, figuriamoci l’anno scorso; ma quando ci serve un esempio storico su cui misurare il nostro presente dilatato e immemore, o sotto cui schiacciarlo fino a renderlo irriconoscibile, la nostra mente corre immancabilmente lì: al nazismo e allo sterminio degli ebrei. Ma la Shoah non è un passato storico a cui guardiamo storicamente; piuttosto, ne abbiamo fatto un Mystery Play medievale con alcuni ruoli fissi – carnefici, vittime, spettatori, per citare la triade di Raul Hilberg – che usiamo di volta in volta come caselle vuote. Per ogni nuova tragedia che un’attualità nefasta manda in scena, corriamo ad attribuire le parti: chi sono i nuovi nazisti, chi i nuovi ebrei, chi i nuovi indifferenti?

  
Temo, e lo dico con rammarico, che parte del problema sia anche nel modo in cui commemoriamo ritualmente la liberazione di Auschwitz. Elie Wiesel disse una volta che la Shoah è “una tragedia unicamente ebraica con implicazioni universali”. In tanti hanno notato che questa celebre frase contiene, se non proprio un paradosso, la possibilità di un cortocircuito: postula un evento che è al tempo stesso incomparabile ed esemplare, così unico da non tollerare analogie e così universale da poter essere di lezione all’umanità intera. Tzvetan Todorov osservò in proposito che rischiamo di diventare “come quella sposa di Usbek, nelle Lettres persanes di Montesquieu, che dice a suo marito, allo stesso tempo, che egli è il più bello degli uomini e che non ne aveva mai visti altri”. Così ci ritroviamo da un lato con una serie di fatti storici intransitivi che inibiscono qualunque paragone con altri fatti, dall’altro con un insieme di lezioni da trarne – le “implicazioni universali” di cui parlava Wiesel – che però, in assenza di analogie circostanziate e ragionate, restano fatalmente lezioni vuote, e in quanto tali disponibili. Ciascuno allora si sente libero di riempirle come più gli aggrada, e l’elenco è ormai lunghissimo. Nel 1999 lo storico Peter Novick (“The Holocaust in American Life”) ne fece un primo inventario. Le “lezioni” della Shoah erano usate, tra le altre cose, contro il patriarcato e contro l’aborto legale, per i diritti degli animali e per il diritto a possedere armi (che sarebbero tornate utili nel ghetto di Varsavia). Oggi si sono aggiunte altre occasioni assai improbabili per trarre di queste lezioni, dalla denuncia del “genocidio trans” alla protesta contro i lockdown dovuti alla pandemia. E tutto questo in tempo di pace; in tempo di guerra, come stiamo vedendo non solo a Gaza ma anche a Kyiv, le cose peggiorano, e la Shoah è brandita come una clava dai filopalestinesi e dai filorussi in modi che si fatica a non definire ripugnanti. 

      
Tra l’eterno presente da un lato e la Shoah come fonte di ammaestramenti intemporali dall’altro, abbiamo perso di vista la storia. Che probabilmente non serve da vaccino, ancor meno da cura, ma che resta uno degli strumenti migliori per fare diagnosi. Ecco, secondo me, cos’è che non ha funzionato e non funziona nel Giorno della Memoria.