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In mare

Quanto conta, nella storia del Titan, la strategia industriale

Giulio Boccaletti

Le operazioni di salvataggio, pur fallite, sono state la dimostrazione di forza di un’industria e di una tecnologia innovative. E l’Italia che fa?

Nella tragedia del Titan sono morti un imprenditore incosciente, un suo dipendente e tre miliardari in cerca di brividi. Ad alcuni, gli sforzi per salvarli sono parsi eccessivi, se confrontati con i soccorsi apparentemente indolenti che solo la settimana prima non erano riusciti a salvare i 300 dispersi nell’affondamento di un barcone al largo della Grecia. La lettura di classe era inevitabile: centinaia di pakistani poveri e disperati annegavano mentre il mondo si animava per padre e figlio sul Titan, anch’essi pakistani, ma miliardari. Il diverso trattamento di ricchi e poveri, però, è una triste banalità della vita moderna. Indignarsi solo quando questa discriminazione diventa spettacolo mediatico è un esercizio ipocrita e inutile. Il cordoglio per tutte le vittime del mare è doveroso. L’impegno a perseguire politiche che evitino che centinaia di persone muoiano inutilmente nel tentativo di migliorare la propria vita, necessario. Ma interpretare gli eventi del nord Atlantico in termini esclusivamente morali o classisti distrae da ciò che li ha resi veramente singolari. Quando la Polar Prince, la nave di appoggio del Titan, ha comunicato di aver perso ogni contatto con il sommergibile, in poco tempo si sono radunate una dozzina di navi nel sito a 700 chilometri a sud di Terranova. Che navi erano? Una di queste era la Glace Bay della marina canadese, con a bordo una camera iperbarica. E poi due rompighiaccio della guardia costiera, la Ann Harvey e la Terry Fox. E la John Cabot, una nave per lo studio degli ecosistemi, operata dalla guardia costiera e dotata di un sonar molto sensibile. 

I protagonisti del soccorso, però, sarebbero ben presto stati altri: una flotta di navi industriali dotate di Rov (Remotely Operated Vehicles), veicoli teleguidati per operazioni in profondità. La speranza era di ripetere ciò che la marina americana aveva fatto qualche tempo prima per recuperare un jet militare inabissatosi a quasi 4.000 metri di profondità nel Mare Cinese Meridionale. Un Rov e uno speciale sistema di argani erano riusciti a riportare in superficie l’aereo. Fosse stato ancora integro, si sarebbe potuto fare lo stesso con il Titan. E così, si sono presentate una decina di navi dotate di Rov pronte per un’operazione difficile. La Horizon Arctic è un rimorchiatore della Horizon Maritime, società di servizi marini norvegese/canadese, che normalmente opera le grandi ancore delle piattaforme petrolifere. E’ dotata dell’Odysseus 6k, un Rov con braccia meccaniche per manovre delicate. C’era poi la Deep Energy, un dragatore commerciale degli specialisti offshore della anglo-franco-americana TechnipFMC, uno dei più grandi al mondo, usato per posare tubi fino a 3.000 metri di profondità. C’era anche il rimorchiatore Atlantic Merlin della Atlantic Towing Company, una compagnia di servizi marittimi parte del conglomerato J.D. Irving Limited, e la Skandi Vinland, nave di proprietà della norvegese DOF ASA, specializzata in operazioni offshore. Quando tre giorni dopo, l’Horizon Arctic ha comunicato di aver trovato pezzi del sommergibile imploso, si stavano ancora mobilitando risorse: la Magellan di Guernsey, specializzata in esplorazioni ultra-profonde, stava preparando un suo dispositivo quando si è saputo che era tutto finito. 

Come mai questa mobilitazione? C’era sicuramente interesse umanitario. Ma il costo sarebbe stato di svariati milioni di dollari, troppo per essere solo filantropia. Le regole su chi paga per i recuperi a mare variano ma, se l’incidente è il risultato di imprudenza, di solito paga il soggetto soccorso, in questo caso la OceanGate proprietaria del Titan. Dato che l’amministratore delegato è scomparso, che questi costi erano difficilmente assicurabili, e che ormai la compagnia vale poco o nulla, è difficile immaginare il recupero dei costi. Se ci astraiamo dall’emotività della tragedia umana, la spiegazione appare evidente. Queste compagnie sono intervenute perché potevano: una dimostrazione di forza per un’industria tecnologicamente avanzata e con risorse sufficientemente grandi da poter assorbire il costo come gesto di cittadinanza imprenditoriale. La tragedia del Titan ha messo il pubblico di fronte a una realtà che raramente si discute: l’oceano si sta industrializzando.Avessero salvato i cinque passeggeri del Titan, ora parleremmo di quanto straordinaria sia la tecnologia di un’industria, quella di Rov e di veicoli autonomi guidati da intelligenza artificiale, che sta crescendo a un tasso di oltre il 20 percento annuo. Discuteremmo della battaglia per l’accesso alle risorse minerarie del fondo marino, che la alimenta da diversi anni. In più, noteremmo che stiamo vivendo un rinascimento della difesa navale, da quando la Cina ha cominciato a rincorrere l’America nelle tecnologie subacquee (un fattore decisivo su questo fronte e che manca al gigante asiatico per raggiungere gli Stati Uniti è la produzione avanzata di semiconduttori, guarda caso la principale industria di Taiwan.)

L’oceano si sta industrializzando, quindi. L’economia marina globale rappresenta ricavi per oltre mille miliardi di euro, e sono destinati a salire. Quasi la metà ancora oggi è esplorazione, estrazione e trasporto di idrocarburi e minerali, un quinto è associato a cavi, sensori e altri strumenti che vivono sui fondali. A seguire altre industrie, dalla pesca alla cantieristica navale. Come altrove, la tecnologia sta trasformando i modelli economici. Se il contesto cambia, occorre avere una strategia per affrontare ciò che verrà. E qui arriviamo al nostro paese. Quando dopo la Seconda guerra mondiale, Auguste Piccard inventò il batiscafo, i triestini riuscirono a convincerlo a costruire il prototipo in Italia, invece che in Francia. La cabina sferica fu forgiata alle acciaierie di Terni, il corpo superiore al cantiere di San Marco, oggi Fincantieri, e il tutto fu assemblato a Castellammare di Stabia, anch’esso Fincantieri oggi. Era nato il sommergibile “Trieste”. L’Italia sognava un ruolo come potenza ed eccellenza tecnologica marina. Ma il contesto, allora come oggi, stava cambiando. Il Trieste fu comprato dalla marina americana, che lo adattò per raggiungere la fossa delle Marianne a 11.000 metri di profondità. Il veicolo raggiunse il fondo il 23 gennaio 1960. Quella stessa estate il sottomarino Uss Geroge Washington, il primo con 16 missili nucleari Polaris, diventò operativo. Il deterrente era andato sott’acqua, e la Guerra fredda aveva fatto dell’abisso uno spazio conteso. La strategia industriale era ora inseparabile da quella per la sicurezza. Le sinergie tra difesa e cantieristica alimentarono la crescita dell’industria navale durante la seconda metà di quel secolo.

Oggi, il contesto sta nuovamente cambiando. Nella dimostrazione di forza che abbiamo visto nelle operazioni di salvataggio, si distingue un’industria in espansione, con risorse e innovazione tecnologica in accelerazione. L’Italia ha importanti campioni industriali di questa economia marina, da Eni e Fincantieri a Saipem, la compagnia di servizi e perforazioni dell’era Mattei e associata a progetti come il Nord Stream 1. Prysmian, l’incarnazione moderna della Pirelli Cavi e Sistemi, è un altro gruppo di rilievo. Ciò che manca è una strategia nazionale che rifletta il contesto che cambia. Quale ruolo per l’economia italiana nella gestione degli spazi e risorse marine del Mediterraneo e del mondo? Che ruolo nello sviluppo ormai inevitabile dell’automazione subacquea? Che ruolo nelle filiere che si sono viste in azione la settimana scorsa? Le risposte non possono essere lasciate solo alle singole compagnie. Nel Pnrr si parla di acquacultura e di sostenibilità ambientale. Sono temi importanti, ma non si possono perseguire senza avere anche una visione industriale degli spazi comuni, specie quando il resto del mondo si sta muovendo in questa direzione. Nell’Atlantico del Nord, attraverso lo squarcio della tragedia, abbiamo potuto intravedere il futuro dell’economia marittima. Ci dobbiamo chiedere come farne parte.

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