Na' tazzulella con le Lazzarelle

Fabiana Giacomotti

Il progetto di torrefazione nella Casa circondariale femminile di Pozzuoli compie dieci anni e trova un sostegno economico grazie ad Arav Group, proprietaria dei brand Silvian Heach e John Richmond. Per aiutare il re-inserimento delle detenute. E per liberare anche noi dalle "gabbie mentali"

La cooperativa di torrefazione, tisane e specialità al caffé “Lazzarelle” della Casa circondiariale femminile di Pozzuoli compie dieci anni, ha appena chiuso a poco più di centomila euro il bilancio del 2020, faticosissimo anche dal punto di vista psicologico, impiegato settanta detenute a tasso zero recidiva, molte di loro diventate a loro volta piccole imprenditrici o tornate a esserlo (Teresa, due figli, bellissima, già barista, era diventata rapinatrice per pagare gli usurai), avviato un bistrot nella elegante Galleria Principe grazie al sostegno del Comune e di Unicredit e insomma messo a frutto il primo premio ottenuto due anni fa al Festival Nazionale dell’Economia Civile e quello, recentissimo, di Invitalia Economia Sociale.

     

Finalmente, la cooperativa ha trovato anche un sostegno economico per rafforzare produzione e, soprattutto, distribuzione online, grazie ad Arav Group, proprietaria dei brand Silvian Heach e John Richmond e produttrice dei Marco Bologna, il duo creativo che ha vestito i Maneskin al concerto pre-Rolling Stones di Las Vegas con quelle tutine e quei top stars and stripes di cui tutti si sono domandati chissà-chi (adesso lo sapete: Marco Giuliano e Nicolò Bologna).

 

Dice Mena Marano, amministratrice delegata del gruppo, di aver comprato per il momento “una quantità importante” di prodotti che, con bella confezione in cartone di riciclo, graziosa t shirt e shopper in cotone ecosostenibile ideata dal suo gruppo creativo con il logo di un abbraccio inserito in un cuore rosa, verranno messe in vendita online fra pochi giorni con l’obiettivo di rafforzare la conoscenza del progetto e dei prodotti; l’obiettivo, però, è di affiancare nella distribuzione, grazie alla propria rete diffusa in venti paesi, la fondatrice delle “Lazzarelle” Imma Carpiniello, entrata nel carcere ormai molti anni fa come ricercatrice e osservatrice sociale e poi rimasta a sviluppare un progetto “oggettivamente difficile, perché se è vero che il caffè è legato alla tradizione napoletana, è anche vero che quello di torrefattore è un mestiere maschile”. Le detenute lo hanno scelto, e se ne tramandano i segreti, proprio per quello: “Per evitare di cadere nel cliché della produzione di oggettistica”.

   

Il caffè arriva da Shadhilly, produttori marchigiani, un’altra realtà equa e sostenibile che importa caffè da piccoli produttori e lo rivende alle Lazzarelle, che lo acquistano in grani e poi lo tostano, lo macinano e lo imbustano in un packaging differenziabile. La miscela, che abbiamo provato grazie a un caffè fatto come si deve, cioè con la napoletana, è buonissima, il gusto rotondo e privo di quella acidità un po’ tipica delle mescolanze napoletane (non staremo a spiegarvi perché, tanto da qualche parte vi avranno sicuramente raccontato la leggenda del caffè partenopeo fatto con le rimanenze dei sacchi sbarcati dalle navi che il popolo macinava fino all’ultimo granello di polvere e che è rimasto nel dna del gusto nonostante l’evoluzione della materia prima e anche del benessere generale).

   

Il nome della cooperativa, Lazzarelle, ha qualcosa a che vedere con la “ventata ‘e primmavera”, della canzone di Aurelio Fierro da cui negli Anni Cinquanta venne tratto un musicarello con la povera-ma-bella Alessandra Panaro, ma fa ovviamente riferimento ai giovani, spesso ladruncoli, della Napoli popolare che affiancarono i sanfedisti contro gli insorti della Repubblica Napoletana del 1799 e che è rimasto nel lessico locale: è nato da una consultazione fra le detenute e dalla natura penale per così dire attenuata di una casa circondariale.

   

Lo slogan, “Lazzarelle non si nasce, si diventa” è invece un evidente omaggio a Simone de Beauvoir, e in una chiacchierata che abbiamo fatto con la direttrice del carcere Maria Luisa Palma, mira a “modificare la forma mentale dell’opinione pubblica, sempre incline a emarginare chi abbia commesso reati ed errori”, che è un modo anche questo attenuato per occultare una realtà carceraria nazionale sulla quale l’Europa si è fatta sentire ancora pochi mesi fa, e non solo per il sovraffollamento e l’età elevata dei detenuti rispetto alla media del continente, ma anche per le scarsissime, o non costanti, iniziative di recupero: solo il 30 per cento dei detenuti, infatti, lavora, nella stragrande maggioranza dei casi a rotazione, rendendo ancora molto difficile il processo di re-inserimento e di “giustizia come bene comune” a cui mira l’ambiziosa riforma Cartabia. Il linguaggio è importante, le parole hanno un peso che tendiamo a trascurare , dunque ha molta ragione il presidente della Camera penale di Napoli, Marco Campora, quando afferma che “anni di giustizialismo spiccio e di metafore sulle 'chiavi da buttare'” abbiano lasciato un segno profondo nell’opinione pubblica e reso progetti come questo essenziali per liberare anche noi dalle “sbarre mentali”. 

 

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