ANSA/ETTORE FERRARI

Luigi Amicone, simpatico incazzoso, aveva chiara come pochi l'alternativa tra l'essere e il nulla

Ubaldo Casotto

Un intemperante entusiasta. Incurante dell’essere sempre minoranza, incurante di ogni tattica, si lanciava in tutto a capofitto

Il primo messaggio è delle dieci di sera di lunedì: “È morto Raffaele Tiscar in un incidente”. Il secondo è di nove ore dopo, le sette di mattina di martedì: “È morto Luigi Amicone”. Ero amico di entrambi dagli anni dell’università. Lele era il responsabile degli universitari di Cl di Firenze, Luigi di quelli della Cattolica di Milano, io di quelli di Torino. Lele e Luigi avevano la stessa età, 65 anni. Lele ha fatto il consigliere comunale, il deputato, il manager, il vicesegretario generale a Palazzo Chigi con Matteo Renzi, il capo di gabinetto al ministero dell’Ambiente e ora si occupava di servizi alla persona, passione sociale che lo vedeva implicato in prima persona come famiglia affidataria della rete famiglie di Associazione Cometa di Como. È morto in moto. Luigi è morto di infarto dopo una crisi respiratoria da pneumotorace.

 

C’è un mistero in queste due morti. Come c’è stato e c’è nelle loro e nelle nostre vite.

Luigi, giornalista, ha iniziato la sua lotta con la scrittura con un periodico universitario, Kaccomatto (“giornale provvisorio in via di sviluppo”), poi è stato inviato del Sabato, e infine ha fondato Tempi. Ha collaborato anche con il Foglio (qui tutti i suoi articoli), per il quale scriveva una rubrica su famiglia e dintorni, “L’Ottovolante”, in cui metteva a disposizione di tutti la sua esperienza diretta, simpaticamente scombiccherata ma sempre riflessa, di marito e padre di sei figli. Gli ultimi cinque anni ha fatto il consigliere comunale a Milano per Forza Italia, all’opposizione, il suo posto.

Luigi era bello, simpatico e incazzoso. Il sorriso era solare, il gusto di discutere insopprimibile. Era l’incarnazione vivente di una frase di Chesterton: “Per uno che sappia appena tenere in mano una spada è sempre un onore sostenere un duello”. Incurante dell’essere minoranza, incurante di ogni tattica, si lanciava a capofitto. La maggiore delle mie figlie lo invitò a un’assemblea nel suo liceo, Luigino partì da Milano, venne a Roma, si sedette accanto a lei al tavolo di presidenza dell’assemblea e tempo mezz’ora li avevano contro tutti. “Tutti, papà – mi raccontava –. Ma ha dato una testimonianza della sua fede come nessuno aveva mai fatto nella mia scuola”.

La fede in Gesù Cristo. Fu Luigi Amicone, il 31 agosto 1978, – rispondendo all’insistente domanda di don Luigi Giussani durante un’assemblea estiva di universitari a Chiesa di Valmalenco, “Che cos’è per noi il cristianesimo?” – a uscirsene con questa definizione: un avvenimento, il cristianesimo è un avvenimento. Lo disse perché così era stato per lui, giovane immigrato abruzzese a Milano, immerso personalmente nel tourbillon sociale e dei costumi degli anni Settanta (“Lo sai – mi disse un giorno – che sono il figlio della prima coppia che ha ufficialmente usato le legge sul divorzio?”), tentato da Avanguardia operaia e affascinato dall’incontro con due preti, don Giorgio Pontiggia prima e don Luigi Giussani poi, il cui impeto di vita era all’opposto di ogni moralismo.

Ecco il resoconto di quel lunghissimo botta e risposta (ventisette pagine di trascrizione) come riportato nella Vita di don Giussani di Alberto Savorana.

“Iniziano gli interventi: nessuno soddisfa completamente Giussani, a ognuno ribatte che si tratta di conseguenze e non del nocciolo della questione: ‘Non c’è polemica in me; tutte le vostre risposte sono giustissime – intendiamoci –, ma è per andare più a fondo della questione’. C’è chi dichiara che il cristianesimo è un modo diverso di vivere le cose del mondo. E Giussani: ‘Un’etica’. Chi sostiene che è un cammino verso la realtà delle cose. E Giussani: ‘Un metodo’. Un terzo aggiunge che è un metodo per vivere. E Giussani: ‘Una sapienza come c’è la sapienza buddhista’. Dopo una serie di interventi prende la parola Luigi Amicone: ‘Io penso che il cristianesimo sia l’avvenimento del Dio che si è fatto un uomo e questo uomo si è detto Dio e ha scelto…’. Giussani lo interrompe ed esclama: ‘Basta, basta: ci siamo! Perché è solo quello il cristianesimo! […] Un fatto!’. E aggiunge: ‘Se io gli do un pugno e gli rompo gli occhiali, è un fatto che gli ho rotto gli occhiali, così è accaduto questo: un uomo che si è detto Dio. […] La categoria ‘fatto’ diventa la categoria fondamentale di ogni pensare cristiano e di ogni comportamento cristiano. […] Un avvenimento che si prolunga come un boato che incomincia e ingrandisce, come un tuono che ingrandisce, che invece di diminuire come fanno tutti i tuoni, diminuire e scomparire, è incominciato e continua a crescere. Continua. Questo continuare si chiama Chiesa’. Pertanto ‘il nostro essere cristiani è innanzitutto un fatto che non vi potete più strappare di dosso’”.

Di questa parola sono da allora grato a Luigi. E della radicalità che essa implica.

Luigi aveva chiara l’alternativa – perché la viveva sulla sua pelle e la vedeva intorno a sé, nei compagni di università finiti nel terrorismo, in quelli che dal terrorismo erano usciti e gli diventarono amici – tra l’essere e il nulla. La raccontò in un libro Nel nome del niente. Dal ’68 all’80, ovvero come si uccide una speranza. Un “libro-coacervo”, un “libro-passione”, un “libro-chiave”, un “libro-grimaldello”, come lo definì Giovanni Testori nell’introduzione. Nel libro Luigi racconta di anni di speranze deluse e strozzate, di violenze, soprattutto contro la presenza dei cattolici in università e nella società; lo fa pubblicando i documenti di quel tempo, anche i più tragici, mettendoli, come in un collage di Matisse, uno accanto all’alto, facendone risultare il contrappunto dei colori, gli orrori e le speranze. Furono gli anni in cui la rivoluzione si insegnava dalle cattedre, incuranti di come chi ascoltava tra i banchi prendesse sul serio le parole incendiarie di sedicenti maestri. Testori è tranchant: “Far la ‘farfalla rivoluzionaria’ mentre altri stan giocando la vita non è mai stata e mai sarà azione propriamente ‘progressista’ ed umana”.

“La prima politica è vivere” fu il titolo di un volantino del dicembre 1977 che i ciellini diffusero negli atenei al termine di un anno che aveva visto la cacciata del segretario della Cgil Luciano Lama dall’Università di Roma e la morte di una decina di persone in fatti di sangue legati al Movimento del ’77 e al terrorismo. Non so se quel titolo lo vergò Amicone, certo lo fece suo e ne colse il valore definitivo incontrando l’esperienza del dissenso dell’est europeo, soprattutto nella vicenda di Václav Havel e della Primavera di Praga. Su Kaccomatto del 2 maggio 1978 si legge “l’unica possibilità è un modo diverso di vivere e di avere amici, di costruire solidarietà, di guardare la storia del popolo, di pregare, tutto nell’ombra, ma da protagonisti, unico modo per essere uomini. Così ci piace ricordare i nostri amici di Praga”.

Quando nel 1979 uscì in Italia Il potere dei senza potere Luigi ne comprò subito una copia, che conservò per dieci anni e portò con sé a Praga il 29 dicembre 1989, agitandola sopra la testa al passare del neo-presidente cecoslovacco. Così me l’ha raccontata in una testimonianza per la mostra su Havel che ho curato a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino.

“Ci sono momenti indimenticabili, anche se tutti li avessero dimenticati. Sulla copertina della mia copia c’è un autografo ragazzino, è l’autografo che ci fece Václav Havel a Praga in un teatrino a ridosso della Piazza San Venceslao, una sera dopo le grandi manifestazioni di piazza della cosiddetta Rivoluzione di velluto. A noi che l’avevamo letto dieci anni prima nell’assoluta ignoranza di tutto l’occidente, in Italia, in Europa, nessuno lo conosceva, nessuno conosceva questa esperienza di antitotalitarismo. Anzi, tutti i dissidenti dell’est erano sospettati, perché erano fuori dall’orbita cosiddetta ‘antifascista’. Ebbene, quella sera Havel fece allontanare i suoi guardaspalle e disse: ‘Questi sono dei nostri, sono amici, hanno la precedenza su tutti’. Eravamo io e un amico praghese, Peter Eilesch. […] Havel aveva riconosciuto i suoi amici, cioè quelli non dell’ultima ora, delle trionfali giornate di novembre, della caduta del Muro, ma quelli che da anni, decenni, andavano in Cecoslovacchia, in Polonia, in Unione sovietica e avevano costruito un’amicizia, l’amicizia che lui vedeva come l’alternativa al potere, che sarebbe diventato anche il potere dell’occidente. Profetizzava, infatti: ‘Guardate che la nostra situazione è la situazione che conoscerete voi tra vent’anni’. Predicava e raccontava di questa vita alternativa nella verità: ‘Mai più la menzogna’ gridava alla piazza di San Venceslao. Parlava, annunciava, chiedeva la ‘polis parallela’, cioè una comunità, un’amicizia di gente che uscisse dalla menzogna e vivesse secondo canoni diversi. […] Parlava delle intenzioni della vita in questo libro che in Università Cattolica alla fine degli anni Settanta divenne forse il libro più letto dagli universitari e che grazie a don Giussani e a don Francesco Ricci fu il libro che infiammò di un’idea assolutamente diversa la vita delle comunità, anche cristiane, italiane”.

C’è un altro regalo ci ha fatto Luigi: gli appunti di un viaggio in Terrasanta con don Luigi Giussani. Ne è nato un libro, Sulle tracce di Cristo, che lui ha dedicato alla carissima Annalena, sua moglie, e nella cui nota introduttiva scrive: “Si conosce solo ciò che si ama. […] Non esiste – e francamente mi fa pena certo turismo religioso che fruga le pietre sante e sorvola con indifferenza la considerazione degli uomini che vivono intorno a quelle pietre – che si possa viaggiare in Israele e nei territori del futuro Stato palestinese (irriducibile, Luigi, nella sua speranza, ndr) senza provare un moto di curiosità e di partecipazione all’esistenza, spesso drammatica, che si svolge su quelle terre. […] Non ho problemi a manifestare le mie simpatie: sono tutte per il popolo. Per il popolo palestinese e per il popolo israeliano, al di là delle ragioni e dei torti che l’uno e l’altro hanno da esibire”. Segue un lungo elenco di nomi e cognomi, di volti israeliani e palestinesi che ha incontrato, con cui ha parlato, mangiato, ballato (come ballava bene Luigi!). “Pensavo a come l’estraneità, l’ostilità e la guerra costringano gli uomini a essere più autentici ed essenziali. E a quel grande mistero che è il cuore inquieto dell’uomo. Si conosce solo ciò che si ama. Come ha scritto il grande Pier Paolo Pasolini ‘solo amare, conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto’”.

Pasolini, Luigi ci ha sfiancato con Pasolini. Ne amava l’inquietudine e il cristianesimo. I due motivi per cui anche lui era amabile.

Nel 1984, su un manifesto appeso nei chiostri della Cattolica don Giussani scrisse di suo pugno un commento in cui parla della testimonianza del movimento di Cl come di “spettacolo di limite e di tradimento, e nello stesso di sicurezza inesauribile nella grazia che ci viene donata e rinnovata ogni mattino. Da qui viene quella baldanza ingenua che ci caratterizza”. Baldanza ingenua. Non ne ho la prova, ma sono sicuro che pensasse (anche) a Luigi Amicone.

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