Da Campo di Giove a Giove Romano, tra boschi di faggi e rocche interiori, per essere Padri, Pastori e Pistori

Alessandro Giuli

    Penso da sempre che Campo di Giove sia uno dei pagi più felici d’Italia. A cominciare dal nome, che rinvia al sommo fra gli dèi onorato lungo i tratturi montani che da Sulmona portano sull’alto giogo della Majella e poi digradano fino alla sannita Aufidena. E proprio a un antico santuario giovio si deve la nascita del paese, in origine una mansio pastorale per le genti italiche in transito fra ghiacci e vallate. I resti di un tempio, anch’esso dedicato a Giove, sono sempre visibili nei pressi di Cansano, nella romana Ocriticum, lungo la via che conduce a Pescasseroli e dunque dal Parco della Majella a quello d’Abruzzo. Su questa strada, a un’altitudine compresa tra 1.280 e 1.420 metri sul livello del mare, si apre all’improvviso un’area boschiva vetusta che si estende per circa cento ettari. E’ un monumento vivente della natura animata da esseri disincarnati, già in antico consacrato a Giove (di nuovo!) per la presenza dominante di imponenti faggete. Iuppiter Fagutalis è dunque il signore di questo enorme bosco in cui torreggiano faggi centenari, accanto a peri e meli selvatici, arbusti di agrifogli alti fino a diciotto metri accopagnati dalla rosa cavallina, dall’uva spina e dal ginepro le cui bacche depurano il nobile lupo appenninico che abita il luogo; ma ci sono anche numerosi aceri campestri e montani, il ciliegio selvatico, il cerro, e il biancospino, la fusaggine. Qui il picchio ama configgere il suo rostro nelle cortecce a caccia di larve e l’astore si leva alto in volo per puntare le sue piccole prede roditrici (in certi giorni fausti, dai contrafforti del Monte Amaro, gli fa da controcanto il maestoso volteggio dell’aquila reale). Caprioli e cervi, come già in passato i caprovini, i buoi da tiro e le vacche in asciutta degli allevatori peligni, contengono l’esuberanza di erbe e cespugli. Talvolta s’affaccia l’orso marsicano, con la sua bruna curiosità lunare. Inframezzate a quelle di cavalli e muli domestici, se ne possono scorgere le orme profonde nel fango del sottobosco, sul limitare di rocce muschiate sulle quali guizzano rare le salamandre appenniniche. Fiori silvestri, bucaneve, gigli martagoni e nontiscordardimé, dall’inizio della bella stagione al cuore dell’estate rorida punteggiano praticelli di colorati ricami. E’ questo un locus amoenus protetto da leggi severe e dalla pietas dei nativi italici, i quali hanno recintato l’area in cui il venerato “Grande Faggio” (quasi sei metri di circonferenza e una caratteristica chioma a candelabro) è stato atterrato da Giove Folgore nella notte del 27 dicembre 1999. Ma nessuno qui ha pianto, poiché l’amabile faggio ha lasciato una prosapia degna e numerosa, mentre il carbonio rilasciato nel terremo dalla sua cellulosa alimenta le piccole maglie di cui è intessuta la catena alimentare.

     

    Viene naturale, in posti come questo, percepire un quid più che umano, uno spirito geniale. I nostri Padri, i Maiores dalla cui potestà traeva protezione la Majella (Maia, la radice), onoravano il custode del luogo con acqua e frugali offerte a base di farro e sale (la mica salis dei primordi su cui ha scritto il sulmontino Ovidio). Perché Giove, come ci viene insegnato, è anche nel piccolo seme cereale che “tornerà alla terra per rigermogliare e moltiplicarsi attraverso le spighe, di stagione in stagione. Sarà, quel seme, una volta asciutto, dal mugnaio triturato e trasformato in farina. Farina, dalla radice fer (far, farris, il farro ) contenente il senso di sostenere, nutrire; il verbo latino fero, fers, tuli, latum, ferre si traduce appunto con portare, produrre, sostenere, innalzare eccetera. Dalla stessa radice gli aggettivi ferax e fertilis, ferace, fertile. Una volta ottenuta la farina, separata dalla crusca, interviene il panettiere, colui che fa il pane. Il pane, il nutrimento principe! La radice del vocabolo PANE è indoeuropea, PA, è la stessa dei vocaboli latini pascor, mi pasco, pabulum, pastura, penus, provvista di viveri; tale radice si può considerare quasi identica alla radice del vocabolo latino pater, PA che ha in sé il senso del proteggere e del nutrire; il PADRE appunto, colui che sostiene la famiglia. Il PADRE il PANE! il PANE il PADRE!  Il nutritore e il nutrimento. Matrice: la Madre Terra”. Il panettiere ricaverà da quella farina pagnotte ben tornite, che il furnarius cuocerà nel suo “Furnus dalla radice indoeuropea for, far splendere, ardere”. Ma “il vero fornaio è l’uomo consapevole di ciò che è il pane, il nutrimento principe. La conoscenza dei segreti e dei processi della natura è dipesa dalla acquisita consapevolezza dell’Uomo fornaio nella pratica del suo intimo rapporto con l’essere Natura”.

     

    Partiti da Campo di Giove, giungiamo così sul Campidoglio, dove “sorgeva una candida ara eretta e dedicata dai Romani a Giove Pistore. Questo soprannome di Giove deriva dal vocabolo latino pistor, is, che ha il significato di pestatore (significato originario), mugnaio, panettiere, fornaio”. Il piccolo santuario è legato a un evento favoloso: durante l’assedio dei truci Galli, Giove consigliò ai Romani di radunare tutto il grano disponibile per farne pani da gettare ai Galli, i quali tolsero l’assedio immaginando di non poter certo prendere per fame una rocca così traboccante di risorse.

     

    Fuori dalla verisimiglianza del dettato favolistico contenuto nei Fasti (ancora il sulmontino Ovidio!), sta una verità più sottile e profonda: “La libertà dell’uomo che tende al divino può essere assediata o impedita da forze selvagge e ostili, i barbari, l’oscurità che si oppone alla luce. Tali forze passionali, istintive, necessitanti aggrediscono, pongono sotto assedio la rocca interiore per impedire alla volontà di raggiungere il nutrimento eccelso, il simbolico pane. Eppure l’uomo ha in sé tutto quel che occorre. Lui ha fatto grandeggiare i campi di frumento, ha tratto dal grano la bianca farina, ha conciliato con il grano l’avversa gramigna per far lievitare e crescere con il calore l’impasto, con il fuoco giusto ha approntato il forno ove cuoce il pane. Questo avviene giornalmente in ogni panetteria, così come avveniva a Roma; ma questo vale anche nel discorso allegorico”. Per salvare la propria rocca interiore è necessario rischiare, e gettar via ciò a cui un principio superiore vuol che rinuciamo: “Liberarsi di tutto per non esser schiavo di nulla”… Padri e Pistori del Campidoglio, Padri e Pastori dei boschi italici.