Divagazioni patriottiche intorno a d'Annunzio dopo una visita al Vittoriale (non senza hilaritas)

Alessandro Giuli

    Visto da Riva del Garda il lago è uno scrigno azzurrato protetto da una corona di draghi montuosi che si tuffano a precipizio nell’acqua. In questa stagione l’alito dei draghi si spande limaccioso e rovente fino alle prime ombre della sera, dopodiché prende a soffiare terso, turbina ostinatamente nel suo catino di roccia. All’altezza del versante lombardo il paesaggio si dilata fino alla smarrimento equoreo, e interroga l’anima. Molti anni fa mi capitò di sostare lì in autunno, per via d’un convegno su Osvald Spengler che si teneva a Villa Feltrinelli, l’ultima residenza mussoliniana ai tempi della Repubblica di Salò: mi dissi che non c’era luogo più appropriato di quello per almanaccare filosoficamente sul tramonto dell’occidente, ma quando ci colse la notte fu inevitabile il desiderio di svaporare insieme con le nebbie che si levavano dalle ultime onde visibili. E’ questo il senso del tragico, m’illudevo, vittima di una incapacità tutta giovanile di prendermi poco sul serio. Non avevo ancora conosciuto il Vittoriale di Gabriele d’Annunzio, a Gardone, una manciata di chilometri da Gargnano e da Villa Feltrinelli. L’avrei ammirato qualche tempo dopo, in una visita cameratesca, solenne, rarefatta però. Ci sono tornato sabato, con Valeria e la coppia sorridente dei cognati che ci ospitano a Riva, Silvia e Francesco. Ad accoglierci non c’era il senso del tragico, c’era Giordano Bruno Guerri, che del Vittoriale è presidente, custode, inquilino dannunziano fin nella facies colta e boschiva, e sopra tutto è il dignitario di un’ironia che procede per lignaggio: “Anch’io sono entrato nella famiglia delle vedove di d’Annunzio, come i miei predecessori qui al Vittoriale”, dice lui che ha una moglie bella e due figli più belli ancora ritratti nel suo studio. Addentrarsi con lui nei budelli di casa d’Annunzio, anche quelli meno esplorati, è un privilegio per sognatori, come Tesei accompagnati lungo il labirinto da un sapiente amichevole Minotauro annunciato dal “Cavallo blu” di Mimmo Paladino: regalo d’ingegno collocato all’ingresso del giardino, “bello come il lago e il Vittoriale, ingemma entrambi”. Chi conosca il Vate, e io un po’ lo conosco, non si stupisce dell’altrui stupore quando Giordano B. descrive le acrobazie erotiche e seriali dannunziane, mostra la collezione di peli pubici femminili, indica divertito il bagno blu e le sue pareti con le “mattonelle persiane” che, cave all’interno, raccolsero a etti la nivea polvere del vizio quotidiano… per non dire (e infati non dirò) degli innumerevoli radianti cimeli del Comandante di un’Italia guerriera e ambiziosa. Chi non conosca il Vate dovrà prima o poi scoprirlo a proprio rischio e diletto. Io qui gli offro la memoria di uno specchio che fu lettura obbligata nella sala degli ospiti meno desiderati della Priora dannunziana, e che reca una scritta d’oro sul verde diaspro: “Al visitatore / Teco porti lo specchio di Narciso? / Questo è piombato vetro. O Mascheraio. / Aggiusta la tue maschere / Al tuo viso ma pensa che / sei vetro contro acciaio”. Fu questo messaggio ad accogliere, nel 1925, Benito Mussolini ormai saldo nel suo comando eppure docile vittima di un’anticamera inflitta con impersonalità, lui che solo in d’Annunzio ebbe un alter ego in grado di impedirgli l’avventura della marcia su Roma (se solo avesse voluto) o di ostacolarne i Patti lateranensi e l’alleanza con il nemico ancestrale germanico (se solo avesse potuto). Il fascismo mussoliniano sopravvive nel pozzo della memoria italiana come il ricordo di una tempesta d’acciaio, ma se smuovi l’acqua in fondo a un pozzo non otterrai che sciabordio di fanghiglia.

     

    Meglio abbeverarsi alla fonte che non conosce corruzione e scoprire che c’è un d’Annunzio nostro contemporaneo in attesa di uscire dal sortilegio degli esteti e degli storiografi, per ravvivare le chiome di ogni nostra possibile Vittoria. E’ l’aedo di Elettra, il poeta interventista Per la più grande Italia, il medium che attinse nella luce astrale della nostra gente il significato salvifico e trionfale dei “Diòscuri domitori di cavalli”, i divini gemelli che proteggono i confini tricolori dell’Urbe, suscitati in un bagliore antico dal più semplice degli eroi, il mite aratore italiano che, chiamato dall’urgenza di una invasione straniera, alza lo sguardo dalle zolle materne e impugna il suo strumento di lavoro, sì che “il vomere attrito nel suolo balenò come un’arme” (Canto augurale per la nazione eletta). Nella semplicità marziale di ogni agricoltore italico – suggerisce il d’Annunzio che più amo – palpita un “Eroe dall’aspro sangue contadino” appena consapevole che al di sotto della terra arata abitano le vestigia della nostra gloria, del nostro passato e del riscatto a venire (se lo vorremo). Più dell’archeologo freddamente istruito, è il contadino a serbare il nostro tesoro incantato: “Dirompendo col vomere l’antica gleba / etrusca il bifolco, a Sepoltaglia, / all’Ossaia, la spada e la medaglia / scopre laddove ondeggerà la spica. / Chi sa, nell’ansia della sua fatica / sotto l’ignea fersa, non l’assaglia / un sùbito furore di battaglia / a trionfar la sorte sua nemica!” (Cortona, da Le Città del silenzio). Quel vecchio, immusonito censore di Catone avrebbe senz’altro approvato, lui che all’agricoltura aveva dedicato pagine così severamente sagge. La semplicità è tutto, faremmo bene a ricordarlo, mentre “una grande civiltà umana crolla intieramente, d’un tratto, con i suoi idoli mostruosi, con i suoi valori antichi e nuovi, con la sua tristezza e con la sua cupidigia, con la sua volontà di dominio senza pazienza, con la sua smania d’avventura senza eroismo, crolla d’un tratto, come una falsa stella che precipiti non lasciando se non un poco di fumo e di scoria” (Cabiria). Nelle parole di d’Annunzio, questa civiltà era Cartagine. Nei miei pensieri è l’insano occidente che implode corroso in se stesso, e purtroppo non è Roma a spazzarlo via. A meno che… Ma stiamo attenti a non prenderci troppo sul serio, a non immalinconire spengleriani. Hilaritas è sorella di Victoria. “Ave, cave, pave”, scriveva d’Annunzio e di certo anche rideva, in cuor suo, dei suoi lettori.