
l'intervista
Kevin Spacey è tornato: “Alla fine ce la caviamo sempre”
L’attore? “Deve restare uno studente. E saper ascoltare”. I personaggi? “Il pubblico parla di loro, non di me, e io penso: ho fatto quello che dovevo”. “Le racconto una storia”, tra quadri e poesie
Cammina in mezzo ai quadri, li gira, legge le poesie, è Keyser Söze. Alza i toni, poi li cambia – almeno dieci diversi nella voce – diventa tutti quelli che hai visto al cinema. Kevin Spacey è il più abile, lui recita come gli altri respirano. E’ a Milano, in una galleria d’arte, la mostra è su san Sebastiano. Il santo trafitto, mille frecce e non muore.
La domanda che lei si è sempre aspettato e che nessuno le ha fatto.
“Idea interessante. Le migliori domande sono quelle complesse. E non ti portano a una risposta ma ad altre domande. Mi piace una conversazione con qualcuno e non un q&a”.
Però qui il q&a ci deve essere per forza. Almeno all’inizio.
Ride. Dice anche lui che va così, per forza.
Qual è la tecnica che un attore deve acquisire il più tardi possibile?
“Deve restare uno studente. Aver da sapere, da imparare. Guadagnare. Capire”.
E dopo due Oscar cosa rimane da imparare?
“Sono stato fortunatissimo. A essere riconosciuto, intendo. Sia dagli altri attori che dal pubblico. E quando interpreto qualcuno continuo a scavarci dentro. Se una parte è ben scritta, se è genuina, se è autentica, lo senti. E allora non arrivi mai al fondo di quel personaggio. E questo è vero ma è una cosa diversa tra film e teatro. A teatro ci vai tutte le sere e vedi gli altri attori crescere dentro i loro personaggi, e li vedi cambiare, e il pubblico reagisce in modo diverso ogni volta. Quello che un attore impara dall’anteprima a 12 settimane di distanza non ha paragoni. A volte le repliche finiscono e sei mesi dopo ti viene l’illuminazione e dici ‘oddio, allora è così che si deve fare quella scena’. Faccio un sogno, mi sveglio, e mi rendo conto di come avrei dovuto recitare una parte, e mi dico: l’hai sbagliata per tutto il tempo”.
Uccidiamo un personaggio. Quale?
“Nessuno. Non voglio ucciderne nessuno. Non li giudico. E ucciderne uno significa giudicarlo. Forse uccido il personaggio di ‘Nine Lives’. Lei può uccidere chi vuole”.
Quand’è stata la volta migliore, e come l’ha capito?
“Le racconto una storia, perché le storie funzionano meglio. Laurence Olivier una sera all’Old Vic ci ha regalato la performance della vita. La compagnia, il pubblico e gli altri attori erano tutti esterrefatti. Alcuni chiamavano gli amici dicendo ‘muoviti, arriva per il secondo atto’. A fine spettacolo l’hanno richiamato sul palco per gli applausi, 13 volte, e mentre rientrava in camerino gli altri attori continuavano ad applaudire. Ma lui si è precipitato in camerino, ha sbattuto la porta e si è chiuso a chiave, lo sentivi urlare e rompere oggetti nella stanza. Vanessa Redgrave va a bussare e dice ‘Larry, fammi entrare’ e lui le risponde ‘vattene, lasciami in pace’. Un’oretta dopo lo convince ad aprire la porta. E lei gli chiede ‘ma Larry, che è successo? E’ stata la performance più favolosa che abbiamo mai visto’ e lui fa ‘lo so, e non ho la minima idea di come ci sono riuscito, non lo so, non lo so, e non saprei neanche come rifarlo’. ”
“A volte – aggiunge Kevin Spacey – dipende tutto da come si mettono e si muovono le cose tutte insieme”.
E come si mettono?
“In parte è un mistero. In parte non posso ragionare come se si trattasse solo di me. Ci sono gli altri. Ci sono le persone dietro la macchina da presa. E ogni giorno aumentano le cose che capisco del personaggio, e ne alterano la percezione, e lo cambio, si cambia. E contano molto le persone intorno”.
Per esempio?
“Proprio all’inizio della mia carriera, mi ricordo, stavo girando un film. Ero seduto a una scrivania, davanti c’era la telecamera, quasi primo piano. E dovevo alzarmi e sedermi, alzarmi e sedermi. Una volta, due, dieci. Lo stavo facendo guardando il pavimento. Vinnie Gerardo, che era un cameraman eccezionale, era ancora il tempo in cui mettevi a fuoco manualmente, mi dice: ‘Questo è uno dei tuoi primi film, vero?’. ‘Sì’. ‘E allora ti dico una cosa: tieni la faccia verso la telecamera. Perché la gente viene a vedere quella. Alzati così – e mi mostra come fissare la telecamera – E siediti così’. E’ stato un cameraman a darmi il migliore consiglio possibile. Se ascolti gli altri, se rimani attento, le idee geniali ce le hanno tutti”.
E da lì, l’attore migliore del mondo.
“E’ gentile. L’altro giorno ci pensavo. I media parlano degli attori per parlare degli attori, il pubblico no. Le persone vengono a parlarmi dei miei personaggi. Non vogliono sapere di me, vogliono sapere di Lester Burnham, di Frank Underwood, di Keyser Söze. E ne parlano come se fossero vivi, esistenti. E io penso: ho fatto quello che dovevo. Se si ricordano il nome di una persona che non esiste, ho fatto il mio lavoro”.
E invece il momento peggiore nella costruzione di un personaggio?
“Le faccio un esempio con il teatro, perché i film sono un processo molto veloce. Due minuti e avanti un altro. Nei film ogni attore è il colore nel disegno di qualcun altro. A teatro quello è il tuo dipinto, stai facendo tu. Hai tu il controllo del personaggio, di come cresce, di come cambia. La mattina dopo uno spettacolo il regista ti chiama e ti dà le note sull’interpretazione. Magari 40 sul primo atto e 60 sul secondo. Non girarti così, non muoverti là. A quel punto il tuo cervello si divide in due. Una parte è quella che conosce l’opera, e l’altra è quella che cerca di adattare quello che sa dell’opera a quello che ti dice il regista”.
Che tempi sono i nostri, quelli in cui stiamo vivendo?
“Impegnativi. Ma non conosco un momento storico che non lo sia stato. Però non conosco – allo stesso modo – un momento che non sia stato anche di speranza. La speranza fa parte di noi. Guardando il passato te ne accorgi, lo sai che la nostra specie alla fine se la cava sempre, in un modo o nell’altro. A volte semplicemente devi sbagliare, attraversare i tuoi errori e sperare di fare meglio il giorno dopo”.


dopo il caso Kaufmann
“Tax credit? Fondi solo a chi ne ha titolo”. Parla il produttore Pietro Valsecchi
