Cord Jefferson (LaPresse)

aspettando il 10 marzo

L'underdog degli Oscar. Perché “American Fiction” è il nostro candidato

Mariarosa Mancuso

Girato da Cord Jefferson in tre settimane, con un budget pari a quel che i film rivali hanno speso per le merende, si è intrufolato tra i dieci titoli in gara per il miglior film. Tra cancel culture e nuove sensibilità

"American Fiction” suona un po’ come “Grande Romanzo Americano”, inseguito e ricercato da chiunque avesse ambizioni letterarie. Poi uno strepitoso scrittore come Colson Whitehead è stato celebrato con questa precisa formula, e nessuno ha osato precisare “nero”. Minimalisti e sperimentalismo hanno fatto i loro danni (certe cose proprio non sembravano romanzi). Le donne hanno dato l’ultima spallata: il romanzo è patriarcale, noi ci sediamo in circolo e raccontiamo storie (e fossero almeno del tipo “la mano sulla culla governa il mondo”; no, a raccontare sono le vittime, in nobile gara tra loro).

“American Fiction”, girato da Cord Jefferson in tre settimane, con un budget pari a quel che i film rivali hanno speso per le merende, si è intrufolato tra i dieci titoli in gara per il miglior film. Il nostro candidato, degli altri si è parlato fin troppo. Viene da “Cancellazione”, il romanzo di Percival Everett che massacra la cancel culture. Nella prima scena, una studentessa bianca con i capelli blu legge sulla lavagna “The Artificial Nigger” e subito si inalbera. “Non posso vedere per tutta la lezione una scritta simile”. Non le importa se è il titolo di un racconto di Flannery O’Connor (donna, bianca, cattolica, allevatrice di pavoni e grandissima scrittrice del sud americano morta nel  1964, ancora non aveva 40 anni).

Lo scrittore protagonista si chiama Theloniuos Ellison, detto Monk: un concentrato di letteratura e musica nera. Ralph Ellison scrisse “L’uomo invisibile”: non un supereroe ma un nero che i bianchi non vedevano, se non nei locali jazz o a fare i camerieri. Per una volta, non è una macchietta ma una persona, con la famiglia che va in pezzi – sorella che muore, madre con l’Alzheimer e tutto quel che affligge la mezza età senza malattie proprie. Ma in aula non sta attento ai “trigger”, i punti sensibili degli studenti. Una volta il “nigger”, un’altra volta gli stupri nella mitologia greca: tra un po’ non si potrà leggere più nulla senza suonare la campanella: “escano dall’aula i sensibili che vogliono restare ignoranti”. Non si dirà così, ormai son cose da galera. Ci sarà un gesto convenuto, un fischietto, un segnale rosso lampeggiante.  

Monk ha scritto un nuovo libro, che l’agente e l’editore non trovano “abbastanza nero” (lo ha scritto un nero, ma non basta). Vogliono stupri, sparatorie, droga, dialoghi smozzicati. La vita “in da ghetto”, con cui Sintara Golden (fate conto, Amanda Gorman tra qualche anno) sta scalando le classifiche. Lei nel ghetto non è cresciuta, ma come leggiamo sui comunicati stampa, e ahimè anche nelle recensioni, “ha dato voce”, celebrando “la specificità nero-americana”. Solo gli editoriali possono credere a queste cose, e del resto è l’unica letteratura che porta soldi, come da noi “l’autenticità femminile” (qualcosa, come “Push” di Sapphire era arrivato a noi in tempi non sospetti). Furioso, Monk – Jeffrey Wright, una pieghina all’angolo della bocca per mostrare disprezzo – tenta di smascherarli con una parodia. Il resto su Prime Video, dove senza clamore “American Fiction” è atterrato.

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