L’illustrazione del poster di “Cabiria”, film muto di Giovanni Pastrone del 1914 con le didascalie di Gabriele D’Annunzio (Wikipedia) 

Il racconto

Gli intellò e “la film”. Quando il cinema si declinava al femminile

Michele Magno

L'invasione della tecnica nel regno di Arte e Bellezza. La diffidenza degli scrittori, soprattutto Pirandello, per la macchina diabolica

 

Macchinisti, attrezzisti, elettricisti, segretarie di edizione, ispettori di produzione, aiuti-regista, aiuti degli aiuti, fonici, giraffisti, scenografi, fotografi di scena, gruisti, truccatori, costumiste, operatori, ciacchisti, sarte; e poi ancora: rumoristi, titolisti, doppiatori e montatori. Un esercito di formichine che ha fatto il cinema italiano. A loro va il mio ringraziamento di cinefilo

(Luciano De Crescenzo, “Croce e delizia”, 1993). 

  
“Lei che lavoro fa?”
“Lavoro nell’industria del cinema”.
“Ah bene. Sa, a casa abbiamo un apparecchio per i dvd e credo che non funzioni. C’è un cavo che esce da dietro. Sa mica dove deve andare?”
(Dialogo tra Filippo, duca di Edimburgo, e Cate Blanchett durante un ricevimento a Buckingham Palace).

 
Forse sarà – o è già – della musica il nuovo primato nei nostri giorni, segnati dall’Homo videns televisivo (copyright di Giovanni Sartori). E forse sono i concerti pop i nuovi luoghi di celebrazione di un mistero così assolutamente moderno da non avere più bisogno di una sala, di un museo, di uno spazio organizzato. Ma questo secolo è appena cominciato e, per il momento, la “settima arte” (copyright del critico Ricciotto Canudo, che coniò l’espressione nel 1921) prosegue piuttosto indisturbata il cammino iniziato a Parigi dai fratelli Lumière nel dicembre 1895. Un cammino non privo di ostacoli, soprattutto in Italia. I suoi primi passi hanno incontrato resistenze di varia natura, che hanno complicato la ricerca e la conquista di un’autonoma identità culturale. Via Nomentana, 1905: migliaia di spettatori assistono alla “Presa di Roma” di Filoteo Alberini, un film di dieci minuti e sette quadri che ricostruisce la giornata della breccia di Porta Pia (20 settembre 1870). E’ l’atto di nascita della cinematografia nazionale, in cui vengono osannati gli artefici e i simboli dello stato unitario. Nell’ultimo quadro Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuale II, ai piedi di un’Italia “una, libera e indipendente”, vedono realizzato il loro sogno. I cronisti registrano le “entusiastiche acclamazioni” del pubblico, sedotto dalla rappresentazione dei miti popolari del Risorgimento. Nel 1911 la Milano Films produce “Inferno”, un proto-kolossal che riceve l’onore di essere proiettato alla Sorbona e in altri templi della cultura internazionale. Tra il 1912 e il 1914 una serie di film storici (“Quo vadis?”, “Marcantonio e Cleopatra”, “Giulio Cesare”, “Spartacus”, “Cabiria”) riscopre “le radici di un passato di cui si rivendica orgogliosamente la discendenza […], e interpreta lo spirito di un risorgente panromanismo destinato a divenire struttura portante nei decenni della dittatura fascista” (Gian Piero Brunetta, Cinema, in La cultura italiana del Novecento, a cura di Corrado Stajano, Laterza, 1996).

 

Via Nomentana, 1905: migliaia di spettatori assistono alla “Presa di Roma” di Filoteo Alberini. E’ l’atto di nascita della cinematografia nazionale

 

Mettiamoci ora nei panni di uno scrittore o di un critico letterario del primo ventennio del secolo: che cosa dovevano pensare di questi film (ma allora usavano la parola al femminile, “la film”) che incontravano il gradimento di tutti i ceti sociali? Erano, non dimentichiamolo, film muti, in bianco e nero, prodotti con tecniche ancora immature, ma proprio questo accresceva il senso della loro natura meccanica. La macchina, dunque, “invadeva quel regno dell’Arte e della Bellezza che tante correnti di pensiero e di estetica proclamavano sacro, tutto ideale” (Giuseppe Petronio, Racconto del Novecento letterario in Italia, Laterza, 1993). Inoltre il cinema, con la sua fruizione collettiva in vaste sale, appariva come un concorrente pericoloso del teatro. Anche il cinema infatti cominciò presto a raccontare storie spesso riprese dalla letteratura; ma le raccontava con una tecnica assai vicina a quella teatrale. Nel cinema come nel teatro, infatti, l’autore racconta per interposta persona, l’attore; e già nella Grecia antica Platone e Aristotele si erano posti il problema della differenza tra “epos”, ossia il racconto, e “dramma”, ossia il racconto rappresentato e vissuto sulla sulla scena da attori: “dramma” deriva appunto da un verbo che significa “fare”. Insomma: anche il cinema, come il teatro, raccontava attraverso attori; solo che la loro recitazione veniva fissata su una pellicola riproducibile innumerevoli volte. Era o non era una rivoluzione? Perché lo era, il sociologo tedesco Walter Benjamin lo spiegherà in un libro, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la cui ultima stesura risale al 1939 (ma solo nel 1966 la traduzione italiana vedrà la luce nelle edizioni Einaudi). In ogni caso, quella che diventerà l’arte-guida dell’età contemporanea, come afferma Arnold Hauser nella sua Storia sociale dell’arte (1951), faceva passi da gigante. Negli anni Dieci, il numero dei produttori e dei registi aumenta in modo significativo. Le prime dive – Francesca Bertini, Lyda Borelli – assicurano incassi notevoli e espugnano mercati anche stranieri.

 

D’Annunzio approda al cinema senza complessi, attratto dai compensi. Con le didascalie di “Cabiria”, si assume la paternità dell’opera

 

Gabriele D’Annunzio approda al cinema senza complessi, attratto dai lauti compensi. E assume una funzione di guida per una schiera di letterati che seguiranno il suo esempio. Quando firma il contratto per le didascalie di “Cabiria”, si assume la paternità di un’opera non sua e le conferisce una patente di legittimità artistica e culturale che modifica sensibilmente l’equilibrio dei rapporti tra cinema e letteratura. Altri, invece, costretti a rivelare questi rapporti, confessano il proprio senso di colpa per aver ceduto alle lusinghe delle sirene economiche. Nel 1910 Guido Gozzano, sulla rivista “La Vita Cinematografica”, ammette di aver ridotto per il cinema “fiabe per grandi e piccini sceneggiate con grande sintesi di trama e scaltrezza”. Giovanni Verga si rivolge con questa supplica all’amica contessa Dina di Sordevolo a cui regala i soggetti di molte sue opere: “Vi prego e vi scongiuro di non dire mai che io abbia messo le mani in questa manipolazione culinaria delle cose mie”. Luigi Capuana commenta soddisfatto i suoi guadagni: “Pare che i miei affari si mettano discretamente. Il miracolo lo dovrò a San Cinematografo”. Lo stesso D’Annunzio, in una lettera del 1914 indirizzata all’editore Treves, riconosce che “Cabiria” è quello che “il buon Pascarella chiamerebbe una boiata. E’ un saggio ironico di arte per la folla arida e melensa”. Sempre nel 1914, Luigi Pirandello in una missiva a Nino Martoglio lo implora: “Carissimo Nino […], non potrei fare qualcosa anch’io? Avrei tanti tanti e tanti argomenti di qualunque specie, tu lo sai! E avrei in questo momento tanto tanto bisogno di guadagnare, tu lo sai! Sono disperato per 500 lire che mi urgono per bisogni immediati e non so come e dove trovare. Potresti procurare di farmele avere per un lavoro che potrei fare subito a richiesta?” (v. Gian Piero Brunetta, op. cit.).

 

Il problema era di trovare al cinema un posto nella gerarchia delle arti che gli consentisse di prosperare senza nuocere al teatro, “vera arte”

 

Eppure l’anno seguente il drammaturgo siciliano pubblica un romanzo, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in cui condanna aspramente il “cinema-macchina” che spossessa l’individuo della sua umanità. In una delle sue pagine più riuscite, il protagonista scende nel reparto fotografico della casa di produzione che lo ha assunto e descrive così l’ambiente di lavoro: “Qua si compie misteriosamente l’opera delle macchine. Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il bagno. La vita ingoiata dalle macchine è lì, in quei vermi solitari, dico nelle pellicole avvolte nei telai. Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, affinché un’altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso. Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica […]. Basta ch’io entri qui, in quest’oscurità appestata dal fiato delle delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio ‘superfluo’ svapori” (Feltrinelli, 2017). La prosa è conturbante e il rifiuto del cinema-macchina è netto, ma a rifiutare non era solo Pirandello, erano – tranne i futuristi – molti. Ma, chi prima chi dopo, anche gli intellettuali più scettici deposero le armi di fronte a un’innovazione tecnologica inarrestabile, e che era palesemente congeniale alla civiltà moderna. Enrico Thovez (1869-1925), critico letterario assai acuto, affermò profeticamente che a dare il suo nome al Novecento non sarebbe stato Guglielmo Marconi, ma l’invenzione dei fratelli Lumière. Il problema era pertanto quello di trovare un posto nella gerarchia delle arti che le consentisse di prosperare senza nuocere al teatro, questo sì “vera arte”. In questo senso, è interessante quanto sostiene Gozzano in un testo intitolato Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte (1916). Il poeta nega recisamente che il cinema possa essere un’arte, ma può offrire alle persone intelligenti tante “altre cose: la cronaca settimanale, il dramma desunto dal romanzo d’appendice, la film poliziesca, trucchi sensazionali, paesaggi esotici; viaggi a poco prezzo in terre in cui non andremo mai”. Non arte, quindi, ma un suo surrogato che può avere una qualche utilità pratica. Ed era questa l’opinione più diffusa tra l’intellighenzia italiana, manifestata in numerosi convegni dai nomi più illustri del giornalismo e del mondo accademico. 

 

Non si sottraggono a questo cliché nemmeno personalità, come Piero Gobetti e Antonio Gramsci, fra le più attente alle questioni sociali. La preoccupazione principale di Gobetti era quella di preservare il teatro “dai balletti insulsi e dalle canzoncine lascive” propinate nei film. Dal canto suo, Gramsci osservava: “La ragione della fortuna del cinematografo e dell’assorbimento che esso fa del pubblico, che prima frequentava i teatri, è puramente economica. Il cinematografo offre le stesse, stessissime sensazioni che il teatro volgare, a migliori condizioni, senza apparati coreografici di falsa intellettualità, senza promettere troppo mantenendo poco. […] E nessuno può negare che la film abbia per questo lato una superiorità schiacciante sul palcoscenico. E’ più completa, più varia, è muta, cioè riduce il ruolo degli artisti a semplice movimento, a semplice macchina senza anima, a quello che in realtà sono anche in teatro. […] Non vi è dubbio che una gran parte del pubblico ha bisogno di divertirsi […] con una pura e semplice distrazione visiva: il teatro, industrializzandosi, ha cercato in questi ultimi tempi di soddisfare solo questo bisogno. […] Il cinematografo, che quest’ufficio può compiere con più agio e più a buon mercato, lo supera nel successo, e tende a sostituirlo (“Teatro e cinematografo”, “Avanti!”, 16 agosto 1916). Nota a margine: stupisce non poco che il fondatore del Pci sottovaluti le potenzialità egemoniche del nuovo mezzo tecnico di intrattenimento. Altri grandi esponenti del comunismo internazionale come Lenin e Trockij, invece, colgono subito il grande potere delle immagini in movimento, decretandone la centralità nella lotta per sradicare l’ideologia borghese dalla coscienza del proletariato. In Unione Sovietica è Lenin “a lanciare il progetto di propaganda rivoluzionaria attraverso il cinema invertendo il rapporto tra schermo e spettatore: non più lo spettatore che va dove si trova uno schermo, ma lo schermo che va ovunque si trovi uno spettatore, attraverso treni e battelli […]. Le pratiche di agitazione e propaganda dei comunisti prevedono addirittura l’utilizzo di un treno speciale gestito da Trockij, attrezzato con una sala cinematografica itinerante che deve favorire la diffusione degli ideali rivoluzionari” (Marco Colacino, Celluloide e martello, in “Clionet”, 4 ottobre 2021). 

 

Peserà ancora molto a lungo il giudizio di Baudelaire, che scorge nella dagherrotipia uno strumento per impoverire il genio e la creatività

 

Il cinema, per concludere, era considerato un po’ come la prostituzione: moralmente riprovevole, ma necessaria. Nel 1909 Enrico Novelli, alias Yambo, un giornalista e autore di libri per l’infanzia notissimo, diventa direttore di un’importante casa cinematografica. Nello stesso anno Roberto Bracco e Salvatore Di Giacomo, letterati di tutto rispetto, firmano diversi contratti di collaborazione. Nel 1910 la Milano Films vantava tra i suoi suoi collaboratori romanzieri, commediografi e novellieri di prestigio come Enrico Annibale Buti, Giannino Antoni Traversa, Domenico Tumiati, Nino Oxilia. Furono in molti a cercare nel cinema lauti introiti supplementari e una cassa di risonanza per i loro scritti, un po’ come oggi accade per la televisione e gli spot pubblicitari. 

 
A onor del vero, Pirandello fu uno degli ultimi a cadere in tentazione. Tra il 1926 e il 1936, l’anno della sua morte, concesse più volte il diritto di sceneggiare le sue opere (“Le fut Mathias Pascal” di Marcel L’Herbier, “Acciaio” di Walter Ruttmann, “Ma non è una cosa seria” di Mario Camerini), voltando le spalle alle sue vecchie posizioni. Comunque, in un articolo apparso sul Corriere della sera nel 1929 le riprese, ribadendo che il peccato originale del cinema stava nel suo voler competere con il teatro, una gara che lo avrebbe portato alla sua dissoluzione. Additò al cinema una via nuova, che più tardi Walt Disney seguì in un film celeberrimo, “Fantasia” (1940), ovvero un cinema che fosse “cinemelografia”, linguaggio visivo della musica: “Gli occhi che vedono, l’orecchio che ascolta, e il cuore che sente tutta la bellezza e la varietà dei sentimenti che i suoni esprimono, rappresenta nelle immagini quel che quei sentimenti suscitano ed evocano”. Soltanto in tal modo il cinema avrebbe salvato se stesso e non avrebbe attentato al teatro (v. Giuseppe Petronio, op. cit.). Sarà smentito platealmente nel 1932, quando il banchiere Ludovico Toeplitz, proprietario della Cines, la più grande casa di produzione italiana, nomina Enrico Cecchi, critico letterario dei più autorevoli, manager e direttore artistico. A lui la macchina-cinema non appare più, come a Pirandello, una sorta di Moloch che divora l’anima degli intellettuali, ma un’attività che per essere rilanciata esigeva una programmazione produttiva basata su criteri industriali.

 

Ciononostante, peserà ancora molto a lungo – prima sulla fotografia e poi sul cinema – il giudizio di Baudelaire, che scorge nella dagherrotipia (il sistema di riproduzione messo a punto da Louis Daguerre nel 1830) uno strumento per impoverire il genio e la creatività. Un giudizio contrastato con fermezza dal movimento di Filippo Tommaso Marinetti, che nel Manifesto della cinematografia futurista (1916), smonta la tesi del cinema come “macchina diabolica” e, al contrario, lo celebra come una macchina magica capace di aprire universi negati alle altre arti. La spinta impressa dal futurismo al cinema scorrerà a lungo come un fiume carsico. Sul finire degli anni Trenta, la parola d’ordine del ritorno al verismo diventa il faro del gruppo di intellettuali riuniti attorno a Luchino Visconti e alla redazione del quindicinale “Cinema”. Un drappello di letterati e registi esce dagli stabilimenti cinematografici e va alla scoperta – nelle campagne, nelle periferie urbane, nelle fabbriche – della “fatica di vivere” e di volti di contadini e operai. Le paludi pontine, le campagne toscane, Roma, Napoli, Genova, la Sicilia, sono i luoghi privilegiati di questa ricerca, che culminerà nel capolavoro di Visconti “La terra trema” (1948), il primo episodio di quel “trittico della miseria” che avrebbe dovuto rappresentare – nell’ordine – la lotta dei pescatori, dei minatori nelle zolfatare e dei braccianti in lotta per liberarsi dall’antica schiavitù. Come già aveva intuito Umberto Barbaro in articolo del 1943 intitolato “Neorealismo”, apparso sul mensile “Bianco e Nero”, l’immaginario mussoliniano legato alle mitologie ruraliste era un capitolo definitivamente chiuso.

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