Yorgos Lanthimos (LaPresse)

Venezia 2023

La Mostra del Cinema è tornata sulla mappa dei festival internazionali

Mariarosa Mancuso

Il Leone d’oro a Lanthimos lancia "Poor Things" verso gli oscar. Ed è anche merito dell'ottimo lavoro del direttore Alberto Barbera, che non si dimette, ha ancora un anno di contratto e l’intenzione di rispettare l’impegno, dopo un anno trionfale come il 2023: 14 per cento in più di biglietti venduti

Dedicato a chi ha fatto ipotesi (lanciando nomi). A chi considera la direzione della Mostra di Venezia un incarico che gli spetta di diritto (“è nelle mie corde, nessuno è più qualificato”). Alberto Barbera non si dimette. Ha ancora un anno di contratto e l’intenzione di rispettare l’impegno, dopo un anno trionfale come il 2023: 14 per cento in più di biglietti venduti, anche se non c’erano in passerella i divi bloccati per lo sciopero. Va ricordato, alla periferia dell’impero, che il direttore di Cannes non cambia a seconda dei governi: Gilles Jacob, delegato generale nominato nel 1978, è rimasto fino al 2014, prima di passare le consegne a Thierry Frémaux diventando presidente.

 

L’ottimo lavoro di Alberto Barbera ha riportato Venezia sulla mappa dei grandi festival internazionali – la Mostra ne aveva un assoluto bisogno. Ne ha fatto un trampolino per gli Oscar. Il Leone d’oro a Yorgos Lanthimos con “Poor Things” – nei cinema il 12 ottobre con il titolo “Povere creature”, speriamo in versione sottotitolata come “Io capitano” di Matteo Garrone, già in sala – ora corre verso le statuette. 
E’ un film pazzo con una strepitosa Emma Stone (assente per sciopero) nel ruolo della creatura di Frankenstein, dal romanzo di Alasdair Gray. Ripescata dal Tamigi e rimontata – è un esperimento scientifico – da Willem Dafoe con la faccia devastata dalle cicatrici. Ha il cervello di una bambina, e la camminata meccanica. A poco a poco impara a parlare correttamente. Per le buone maniere ci sarà tempo. Vuole picchiare un bambino che al ristorante piange, e quando scopre il sesso nessuno la tiene più.

 

C’erano altri film meritevoli: “Enea” di Pietro Castellito (l’unico italiano che pare abbia suscitato l’interesse dalla giuria presieduta da Damien Chazelle ); “Maestro” di Bradley Cooper; “Dogman” di Luc Besson; “Hit Man” di Richard Linklater purtroppo fuori concorso. Anche Woody Allen non era in gara, comunque contestato dalle femministe in pieno delirio colpevolista: “I tribunali non vedono quel che c’è da vedere”.

Prima del film di chiusura “La società della neve” diretto dallo spagnolo Antonio Bayona – i giovani sopravvissuti dell’aereo precipitato sulle Ande – è stata la serata dei migranti. Il trionfo di Matteo Garrone con “Io capitano” (Leone d’argento per la migliore regia) e di Agnieszka Holland con “Green Border” (Premio speciale della Giuria). Premio Marcello Mastroianni per l’attore rivelazione a Seydou Sarr, uno dei due ragazzi senegalesi che recitano in “Io capitano” – non aver premiato entrambi è stata pura crudeltà. Moustapha Fall con i capelli ossigenati è salito sul palco, assieme al vero protagonista della storia, che ha imparato l’italiano tanto bene da dire con disinvoltura “in primis”.

C’erano tanti film sul passato, a cominciare da “Comandante” di Edoardo De Angelis: un italiano “brava gente” che salva l’equipaggio di una nave nemica cannoneggiata. La giuria ha scelto le storie contemporanee: la rotta balcanica, la rotta mediterranea, la natura da rispettare nel film di Ryusuke Hamaguchi “Il male non esiste”. Aiuta la memoria sapere che è il regista di “Drive my car”, qui incantato dalla natura (alberi, alberi, alberi, con e senza neve, ruscelli, capanne) minacciata da un costruendo resort.

Miglior sceneggiatura, ma si potevano trovar copioni più meritevoli, a Guillermo Calderón e Pablo Larraín per “El Conde”. Pinochet vampiro, che dai tempi della rivoluzione francese succhia sangue umano e perpetua il male (in Cile sono decisamente più pessimisti che in Giappone). Un’idea che all’inizio sembra divertente, poi si perde in rivoli sanguinari. Verso il finale arriva anche Margaret Thatcher.

Peter Sarsgaard ha vinto la coppa Volpi per “Memory”, il film sull’alzheimer del messicano Michel Franco (avremmo preferito Caleb Landry Jones in “Dogman” di Luc Besson, in giuria preferiscono la demenza neanche tanto senile alla vendetta en travesti). E coppa Volpi (speriamo di incoraggiamento) a Cailee Spaeny per “Priscilla” di Sofia Coppola: la moglie bambina di Elvis Presley e la sua ribellione. Dice la suora alla scuola cattolica di Priscilla: “Dio benedica tuo marito e i suoi fianchi”.

I film in programma per non dimenticare i temi scottanti – il trans polacco, i neri che secondo Ava DuVernay sono considerati casta, come gli intoccabili in India – non erano del tipo che metteva voglia di uscire dopo dieci minuti. I film italiani erano troppi, troppo lunghi, troppo antichi. I migranti cannoneggiati e poi salvati nel “Comandante” di Edoardo De Angelis hanno convinto nessuno.
 

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