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il racconto

Andare al Lido e non trovare Venezia

Raffaella Silvestri

La Mostra del cinema, il red carpet, la gente vestita da sera che scende dal vaporetto. Un americano che mi sfila una scarpa dal piede, gli influencer e io che cerco un po’ di New York al bar dell’Excelsior, e invece niente

Ci sono solo due città al mondo in cui si può vivere un’avventura: New York e Venezia. Non dico un’avventura sessuale, quelle sono geograficamente democratiche, ma ci sono solo due città in cui si può uscire dalla propria vita, dal tipo di persone che solitamente si incontrano, dalle esperienze che si fanno, uscire da sé e diventare per un giorno qualcun altro. Categorie di persone che per differenza geografica, economica, sociale, non si incontrano mai, convivono nelle città facendo vite diversissime, e sono fuori dai social media; i ricchi livello Succession, per esempio, non sono stati nelle nostre scuole e non vanno al ristorante con noi. I ricchi livello Gossip girl, le cui pubblicazioni di matrimonio vanno sul New York Times, che hanno fatto le Ivy League e sono partner in grandi studi legali e legal counsel nelle transizioni presidenziali, magari li possiamo incrociare, ma non andiamo a bere con loro. Entrambi può capitare invece di incontrarli a New York, a Venezia (e a Bali, magari in uno di quegli istituti psichiatrici glorificati che si chiamano The Place).

Sono scesa dal vaporetto sudata e vestita da sera. Non avevo nessun posto in cui andare ma ho pensato: qualcosa succederà. Quel giorno avevo avuto un breve ma incisivo incontro con un americano bello e ricco che mi aveva detto “se divorzi fammi sapere”, e tanto mi era bastato. Quindi, sono scesa alla fermata Lido, la barca affollata di gente con appesa al collo la tesserina di accredito alla mostra del cinema, ma anche di gente vestita da sera, che su questo vaporetto poi si incontra anche la mattina, senza una logica. Come la famiglia di un giovane attore tedesco, un bambino odioso sui nove anni che la mattina scalpitava al caldo indossando una camicia Tommy Hilfiger. Nella coda di cinquanta minuti sotto il sole delle dieci la madre mi ha detto: lui fa il red carpet. Il bambino ha urlato come un bambino piccolo, lamentandosi di quell’esposizione, così solo per rassicurare il bambino ho detto: io vado a vedere Maestro, ma non c’è Bradley Cooper. 

Alle nove di sera, invece, ognuno sembrava andare più spedito verso i propri affari, meno disposto alla condivisione – di successi, di sbruffonerie, di lamentele, di inviti alle feste (l’unica cosa che mi interessava). Sono andata verso la piazza del Casinò, che ha delle panchine a forma di navicelle spaziali su cui i poveri, stanchi lavoratori del cinema (accrediti: cinema, industry, press; verdi rossi e blu, in ordine sparso) si accasciano a ogni ora del giorno e della notte, e ho valutato di cambiarmi le scarpe. Tuttavia ho deciso di fare prima un giro con le Birckenstock, per valutare la situazione senza arrischiarmi al cambio nei bellissimi e menomanti sandali che avevo nella borsa. Quindi avevo questo vestito lungo, slanciato, metà bianco e metà nero, che mi rendeva una giovane Crudelia, e degli orecchini di misure diverse, uno oro e uno argento, che sì, mi pendevano pesantemente dai lobi, ma mi facevano sentire in una certa misura chic anche con le ciabatte modello Boston, quelle che coprono le dita dei piedi, quelle che fino a qualche anno fa indossavano solo gli studenti punk di Bologna. 

Del resto l’americano qualche ore prima mi aveva sfilato una di queste ciabatte dal piede, al tavolino del bar in Fondamenta San Severo, nei pressi di piazza San Marco, una via nascosta e deserta e pulita dove continuava a ordinare vino per tutti, mi aveva sfilato la scarpa dal piede (dopo aver chiesto il permesso: gli americani ora chiedono sempre prima di toccarti, un posso? che rende la transizione più sexy di come era un tempo) e l’aveva osservata come un oggetto esotico, rigirandosela in mano, come una cosa che poteva non solo comprare ma quasi divorare, fare sua, integrare nella sua personalità insieme a tutta la strada, il canale, il vino, l’Europa. Mi è venuto in mente il modo in cui noi guardiamo l’arredamento balinese, il modo in cui facciamo i complimenti ai sari indiani, il modo in cui, pochi mesi prima, avevo lodato la bellezza di un braccialetto a forma di Ganesh che la guida di Mumbai aveva al polso, e lei se l’era sfilato per mostrarmelo e poi mi aveva detto “tienilo”. Io non potevo dirgli di tenere le scarpe, ma ho risposto che sì, sarebbero state bene anche a lui. Lui mi ha guardato il piede senza smalto, la faccia senza trucco, ed è stato lì forse che ho pensato di essere qualcuno che può andare al Lido e casualmente finire in una super festa piena di glamour. Non lo so.

Ora però vago con le Birckenstock per il Lido, do un’occhiata distratta al red carpet dove sfila un gruppo di donne che non riconosco; la cosa non mi sorprende perché le varie volte che durante il giorno sono passata dal red carpet correndo da una proiezione all’altra non ho mai visto una faccia conosciuta. Credo che si possa coniare il termine generic influencer face, per dire la faccia da influencer, che sia maschio o femmina o non-binary, hanno dei tratti riconoscibili della categoria, ma individualmente è difficile dire chi siano. E’ come se fosse il riflesso dello schermo a dargli quei connotati e quel colorito, o forse è solo che non hanno il carisma degli attori, sono proprio come noi, è il fascino della prossimità (sta finendo, lo sentono tutti e lo sanno anche loro, quindi si può dire, in un certo senso, che il tappeto rosso quest’anno ha ospitato le ultime star di un’epoca, l’epoca di Instagram). Altri lavoratori straccioni si affastellano davanti alla gelateria del Lido, e subito dopo c’è l’Excelsior. Mi sono cambiata le scarpe e ho detto andiamo a vedere. Più di un hotel di lusso, un monumento al glamour, un simbolo della Mostra del cinema. Avevo l’idea di sedermi al bancone del bar, ordinare una bevanda alcolica qualsiasi, mangiare delle olive (ora che ci facevo caso, morivo di fame, l’unica cosa che avevo mangiato quel giorno era una brioche e un cappuccino di soia, da qualche parte tra Maestro e The Wonderful story of Henry Sugar, di Wes Anderson).

Quindi entro e mi dirigo verso la famosa-terrazza-dell’Excelsior. Appena si esce si vede il mare, oltre la spiaggia lunga e sabbiosa di queste zone, e per me che frequento la Liguria spiaggia larga e sabbiosa fa subito esotico chic; un signore ben vestito bilancia bicchiere da vino e telefono per fare la foto alla moglie sulle scale. Sono tentata di chiedergli di fare una foto anche a me, perché questo vestito non vada sprecato, ma a questo punto mi sento vagamente meno splendida, un po’ meno alta, come se mi fossi ristretta; e poi, questo povero cristo, che si sta per rovesciare il bicchiere di rosso sulla camicia, non mi colpisce come uno che sappia fare le foto. Quindi torno all’interno e vado davvero al bancone, finally!, la New York che stavo aspettando – e invece no, non c’è quasi nessuno, sono tutti seduti ai tavolini stanchi, immobili, con la staticità del post-pranzo piuttosto che l’effervescenza dei cocktail serali. Mi siedo su uno sgabello al bar, e appoggio la borsa sulla patina appiccicosa che riveste il bancone. C’è un libretto altrettanto appiccicoso che sembra un menù, ma lo apro, è il conto di qualcun altro, abbandonato lì. Alla mia destra, una faccia rubizza sembra uscita da un film di Kaurismäki. Un giovane cameriere sussurra all’altro, “oh, abbiamo quasi finito l’alcol”. Sono le dieci e un quarto. Gli chiedo in italiano se hanno qualcosa da mangiare, lui mi risponde in ottimo inglese che a quell’ora la cucina è chiusa, poi si scusa, si è confuso con la lingua. 

Non so bene come finisco nella parte delle camere, cercando un altro bar dello stesso hotel che sono sicura di aver visto di giorno, perché qualcuno mi ci ha portato, ma due ospiti dell’hotel mi assicurano che non c’è, non esiste altro bar all’Excelsior al di fuori di Bar Blu. Lo prendo per buono ed esco. Prima di riprendere il vaporetto mi fermo al bar temporaneo della piazza del Casinò: un bar da fiera, in cui c’è coda di giorno e niente da mangiare di sera. A questo punto sono le 22.40: prendo un muffin al cioccolato, un prosecco versato nel bicchiere da birra di plastica che si usava ai concerti una volta, prima del cambiamento climatico, e che a quanto pare qui si usa ancora: plastica ad aggiungersi alla plastica che tutti i giorni bisogna comprare per bere acqua, che spesso non esce nemmeno dai rubinetti dei bagni. 

Mi siedo quindi, col mio vestito da sera, sullo sgabello alto di questo bar autogrill, illuminata dalla sua luce blu, col mio prosecco di plastica e il muffin, che divoro sporcandomi sotto le unghie, prima di riprendere il vaporetto. Credo ancora che cose straordinarie possano capitare a Venezia, ma l’equivoco è questo: il festival del cinema non è Venezia (pazza imprevedibile nascosta perturbante). Il festival è Italia. Ha le sue aristocrazie, le sue gerarchie, le sue abitudini calcificate. Forse sono abitudini morenti, e non sono certa che c’entri lo sciopero degli attori. Forse sono i mestieri morenti dell’aristocrazia del cinema: la gente che conta ha tutta una certa età. E si vede. Forse è la generale antifona low-budget (chi lavora alloggia in case sovraffollate, coi materassi sporchi), o al contrario, è l’antifona Cartier (che sui social fa vedere George e Amal ma ai suoi eventi invita gli influencer). Non so. Ma mentre sempre mi interesserà tornare a Venezia, non sono certa mi interessi tornare al Lido. It’s a downer.

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