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Ciak, non si gira

Sceneggiatori di Hollywood in sciopero, alla ricerca della dignità perduta

Mariarosa Mancuso

Dopo l'impossibilità di trovare un accordo economico con la controparte Amptp, la Writers Guild of America ha annunciato lo stop. Una professione ridotta a un lavoretto precario, senza garanzie e con contraccolpi esistenziali

“Siamo incazzati neri, e tutto questo non lo accettiamo più”. Gli sceneggiatori a Hollywood sono in sciopero. Sarebbe stato bello se avessero adottato il grido di guerra scritto da Paddy Chayefsky per Peter Finch (in “Quinto Potere”, Sidney Lumet). C’era anche una sublime Faye Dunaway, e se siete rimasti incantati dall’eleganza con cui le cadono i vestiti, sappiate che le sarte erano sempre pronte con i ritocchi. Questa era Hollywood. Non divaghiamo, la situazione è seria. Oggi gli sceneggiatori riuniti nella Writers Guild of America hanno cominciato lo sciopero. Chiedono soldi, come tutti, alla controparte Amptp – l’associazione che riunisce i produttori cinematografici e televisivi americani. Il contratto di categoria scadeva il primo maggio, qualche soldo durante i negoziati era pur venuto fuori (sostengono i produttori). Restavano le posizioni inconciliabili sullo statuto della professione. Un tempo aveva una sua dignità, senza i riflettori ma decentemente posizionata nella catena alimentare. Ora è ridotta a un lavoretto precario, senza garanzie, con contraccolpi esistenziali. “Siamo noi a far ricchi i produttori”, sostengono gli sceneggiatori. Con scarse ricadute economiche: metà degli 11.500 iscritti alla Writers Guild of America guadagna il minimo sindacale. Era un terzo prima dello sciopero del 2007-2008 che bloccò Hollywood, con una perdita di due miliardi di dollari (oltre agli scrittori e alle sarte, lavorano i fattorini, il catering, le tintorie, gli autisti).

 

La richiesta di avere, per ogni produzione – sia essa una stagione di serie, miniserie, oppure show – un numero prefissato di sceneggiatori e di settimane lavorative – è stato respinto. La controparte non vuole sentire ragioni e vuole decidere anche a lavoro iniziato se serve uno sceneggiature in più o – soprattutto – in meno. Va detto che, per essere formulata da gente che di mestiere scrive, la richiesta era goffa: “Fissare all’inizio il numero degli sceneggiatori e delle settimane di lavoro, che vengano utilizzati o no”. La controparte ha i suoi guai. Wall Street vorrebbe che le azioni delle compagnie di streaming cominciassero a rendere, dopo i fiumi di denaro sperperati per produrre nuovi e scintillanti prodotti onde conquistare abbonati e vincere la concorrenza. Il monopolio di Netflix, che ha speso anche i soldi che non aveva, pare finito, le tv se la passano male, bisogna stringere la cinghia. E trovi sempre qualcuno che scrive anche se lo paghi poco (con gli elettricisti è più difficile). Netflix resta comunque in vantaggio, grazie ai 190 paesi che spiacciono a Nanni Moretti. Può produrre, altrove, per esempio in Italia una bella morettiade di nove ore (o multipli, con camera fissa sul volto del regista).

 

Gli sceneggiatori sono alla base del sistema – anche dei talk-show, i primi  a patire le conseguenze, se i battutisti chiudono il computer. E spesso la loro corporazione era sbeffeggiata per le rigidissime regole. Sulle riscritture, per esempio. O sul ritiro della firma medesima, in caso di “divergenze creative” (nel gergo hollywoodiano: “Furiose liti con minacce di morte”). Tra i punti in discussione, un paio riguardavano l’IA. L’intelligenza artificiale potrebbe imparare a scrivere sceneggiature nuove dopo un adeguato (e quasi istantaneo) tirocinio sulle vecchie. E questa sarebbe cosa brutta (anche per gli spettatori). Peggio ancora, potrebbero essere date a uno sceneggiatore “umano” che aggiunge il suo tocco – facendo saltare i circuiti all’algoritmo. Un picchetto è fissato oggi a New York, davanti alla sede di Netflix. Altri sono a Culver, di fronte a Amazon.

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