Alejandro Gonzalez Inarritu (LaPresse) 

Venezia 2022

A Venezia, Iñárritu presenta “Bardo”. Ma non ne sentivamo troppo il bisogno

Mariarosa Mancuso

Avvince e annoia nello stesso tempo, ha idee geniali e un attimo dopo déjà-vu di stampo felliniano. Serviva una bella sforbiciata. Ma d'altra parte la vita, anche per i registi, è crudele: gli anni passano, prima o poi viene il momento del film “più personale”

Gli indizi erano poco rassicuranti: “È il suo film più personale”. L’etichetta stava appiccicata a “Bardo”, l’ultimo lavoro di Alejandro González Iñárritu, messicano di successo a Hollywood con Alfonso Cuarón e Guillermo del Toro. “Burrito pack”, si usava dire in epoche meno suscettibili, a imitazione del “Rat Pack”, il clan intorno a Frank Sinatra. Hanno messo insieme un bel po’ di premi, hanno girato tanti film belli, a Iñárritu dobbiamo lo strepitoso “Birdman” con Michael Keaton. Sottotitolo “L’imprevedibile virtù dell’ignoranza”: un film che già ricamava – un punto di allegria e uno di malinconia – sulla vita degli attori, la regia, i dispetti dei critici. Per gli Oscar in casa non ha più posto, ne ha uno extra per l’installazione “Carne y Arena” che collocava lo spettatore tra gli immigrati clandestini, inseguiti dagli elicotteri e dai cani poliziotto. La vita è crudele, gli anni passano, prima o poi viene il momento del film “più personale”.

Di solito riesce confuso, giacché deve farci stare – in ordine sparso, pronunciati con le maiuscole – i fastidi del successo e il timore dell’insuccesso. La verità e la finzione, nel cinema e nella vita. Il ruolo dell’artista nella società: privilegiato, parassita, o magari portavoce degli svantaggiati. Un film nel film, ma il copione al momento son brandelli, scene sparse, immagini, ricordi infantili, sogni, dolori, giornaletti sconci, rimorsi familiari.

 

Alejandro González Iñárritu, messicano che da anni vive negli Stati Uniti, aggiunge la sindrome dell’espatriato: quando torna a Città del Messico per due ore si commuove, il resto sono vecchi amici ingombranti. Per un po’ di pepe nazionalista, immagina che gli Stati Uniti – Amazon, per essere precisi, il film è prodotto da Netflix – vogliano comprarsi la Bassa California. Non disdegna soldati in divisa e una conversazione con Cortés il conquistatore, in cima a un mucchio di cadaveri (che poi sono comparse, dopo un po’ si alzano, si stiracchiano e tirano fuori il cellulare).

 

“Bardo” è il luogo delle anime in pena, non vogliono staccarsi dalla vita o hanno conti da pareggiare (avevamo scelto il cinema per stare lontani dalla spiritualità, e invece siamo qui a citare il “Libro tibetano dei morti”). Ha per sottotitolo “Falsa crónica de unas cuantas verdades” – la finzione del cinema che racconta qualche verità. In questo caso, attraverso incredibili piani sequenza, la sublime specialità di Iñárritu. Sta dietro a due amanti che si rincorrono verso il letto, aprendo e chiudendo porte. Si fa strada tra i ballerini di una sala gigantesca. Visita uno studio televisivo, passando da una scenografia all’altra: qui le ballerine scosciate, di là il telegiornale. Entra in sala parto, per un bambino che non vuole nascere, e rientra nella pancia della mamma, una delle scene oniriche che in tre ore di film rompono il ritmo. “Bardo” avvince e annoia nello stesso tempo, ha idee geniali e un attimo dopo déjà-vu di stampo felliniano. Serviva una bella sforbiciata.

 

L’altro film in concorso – “Tár” di Todd Fields con Cate Blanchett – va considerato un ex voto. L’attrice fu presidente di giuria nel 2020: anno Covid, non tutti erano disposti a viaggiare e a sfilare sul red carpet senza pubblico. Racconta la direttrice d’orchestra tedesca Lydia Tár. Cate Blanchett si destreggia con l’archetto e le camicie di seta con il fiocco, il film è un’interminabile istanza: femminismo, lesbismo, molestie. (Mariarosa Mancuso)