Venezia 2022

Ci vuole coraggio, oggi, per cominciare la Mostra con un film su una nube tossica

Mariarosa Mancuso

Apertura di grande divertimento e originalità, degna di una Mostra che stringe sempre più i legami con il cinema americano, e tiene conto del denaro che le piattaforme stanno investendo, senza demonizzarle come fa Cannes

"Le mascherine, le mascherine, ricordatevi le mascherine!” Ci vuole un certo coraggio – o non sarà un esorcismo? – per cominciare la Mostra di Venezia risorta agli affollamenti pre pandemia con un film su una nube tossica. Per la cronaca: i protagonisti del film obbediscono, agli spettatori in sala la mascherina è solo raccomandata, e la portano in pochi (fungono da disinfettante le code sotto il sole di mezzogiorno, quando le apposite macchinette non riescono a leggere i QR dei biglietti).

 

La nube tossica è in “White Noise”, appassionato e acrobatico film che Noah Baumbach ha tratto da “Rumore bianco” di Don DeLillo, uscito nel 1985: chi ha letto il romanzo (si leggeva, una volta, oltre a vedere i film) ha già i brividi. Siamo ai limiti dell’inadattabile, per personaggi – il protagonista Adam Driver è un’autorità nel campo degli studi hitleriani – e trama. Dentro ci sono tutte le ossessioni dello scrittore, una marcia di avvicinamento all’insuperabile “Underworld”: paranoie, merci colorate e fascinose, droghe e segreti di stato (anche combinati tra loro), teorie del complotto, minaccia nucleare per l’umanità, paura della morte propria. 

 

In aggiunta, una bella satira dell’università americana anni 80, fissata con i cultural studies come è oggi con le questioni di genere. Un collega di Adam Driver insegna “Icone viventi”, sa anche come si chiamavano i cani di Elvis Presley (era gente innocua, però: non minacciavano di morte i dissenzienti). E un ritratto di famiglia “ricomposta” (Adam Driver e Greta Gerwig, quasi irriconoscibile con i riccioli a cavatappi, sono al quarto matrimonio, con figli a mosaico) con follie da Tenenbaum ancora prima che la nube tossica costringa alla fuga verso i punti di raccolta.

 

Regista di “Marriage Story” (che in realtà raccontava un divorzio) Noah Baumbach ha ripreso in mano il romanzo durante la pandemia e si è innamorato dell’idea “la famiglia è un formidabile produttore di false informazioni”. Pagherà pegno, già stanno trasformando “White Noise” in un film da dibattito, facendo grave torto alla bravura tragicomica dello scrittore e al talento del regista (anche così si tengono gli spettatori lontani dalle sale, in un momento in cui tutti là fuori aspettano “Game of Thrones: House of Dragons” e la serie tratta dall’eterno “Signore degli anelli”).

 

Apertura di grande divertimento e originalità, degna di una Mostra che stringe sempre più i legami con il cinema americano, e tiene conto del denaro che le piattaforme stanno investendo, senza demonizzarle come fa il Festival di Cannes (“White Noise”, prodotto da Netflix, è in gara per il Leone d’oro).

 

Si è aperto anche il concorso Orizzonti, con “Princess” di Roberto De Paolis, lodatissimo qualche anno fa (senza motivi apparenti) per il neo-neorealistico “Cuori puri”. Entrambi appartengono alla nefasta categoria di film pensati e prodotti per farsi notare ai festival. E niente più. Lo spettatore non conta, non esiste, non viene preso in considerazione – salvo dargli la colpa perché le sale sono vuote.

 

Sarebbe meglio scendere dalle sublimi vette dell’arte per chiedersi, in fase di scrittura e di finanziamento: ma questa storia a chi interessa? “Princess” è una ragazza nigeriana clandestina, prostituta ai margini di un bosco. Ingenua e speranzosa, venti euro la tariffa. Clienti strambi e patetici, obbligatorio il signorino ricco cocainomane. Finto cinema-verità, con un sovrappiù di sbadigli.