Jean-Paul Belmondo e Alain Delon sul set di "Borsalino", 1969 (LaPresse) 

Il cinema di Jean-Paul Belmondo fu per intere generazioni la vera università di vita

Giampiero Mughini

Ci sono personaggi che non hanno bisogno di parole o di spiegazioni: sono quel che stanno facendo, il coraggio di cui stanno dando prova, la sfida del vivere che stanno accettando. Ora Alain Delon è l'uomo più solo del mondo

Credo che da ieri l’uomo più solo al mondo sia Alain Delon, e non solo per il fatto di avere 86 anni e per il fatto di avere vissuto come uno schiaffo in volto il fatto di non essere più il sovrano – come lo è stato a lungo – degli schermi cinematografici di tutto il mondo. Lo è perché su questa terra, e seppure non appaia possibile, non c’è più il suo rivale e compagno di avventure oniriche – quelle avventure oniriche che hanno fatto da cibo quotidiano di due o tre generazioni, fra cui la mia – ossia Jean-Paul Belmondo, che di anni ne aveva ottantotto. 

Possono morire i sogni, o meglio gli uomini e i volti che davano corpo a quei sogni? Può morire colui che aveva dato corpo fattezze anima cadenza musicale al protagonista del film il più mitologico dei Sessanta, l’“À bout de souffle” di Jean-Luc Godard, quel film in cui tutto e per tutto c’erano un ragazzo e una ragazza (l’altrettanto mitologica Jean Seberg) che caracollavano per le strade di una città moderna senza sapere nulla di quello che cercavano e volevano, solo lo stavano vivendo. C’erano, tutto qui. C’era solo la loro giovinezza, la flessuosità dei loro corpi, l’irragionevolezza dei loro gesti, il fatto che quei gesti fossero assieme furibondi e senza scampo. Belmondo muore beninteso senza una ragione che valga la pena alla fine del film, Jean Seberg si suiciderà il 30 agosto 1979.

Chi ha oggi vent’anni o trent’anni stenterà a capire di che cosa sto parlando e il come ne sto parlando. Quando uscì quel film io venivo da una scuola in cui mi avevano tormentato a lungo con i verbi irregolari greci, dove non una volta avevo sentito la parola jazz o la parola futurismo, dove a parlare del corpo di una donna rischiavi l’ergastolo e del resto nessuno mai lo avrebbe fatto. I corpi non esistevano per quei docenti maledetti che hanno avvelenato i miei diciott’anni. Chi ha oggi venti o trent’anni stenterà a capire che noi che abitavamo in provincia andassimo in cinemini di periferia dove certe volte quei film che noi amavamo li avevano tolti già al secondo spettacolo perché al primo non c’era nemmeno uno spettatore. Non ricordo esattamente come riuscii a vedere il film di Godard, in quale cinemino catanese lo andai a scovare a sentire assieme tutta la pesantezza e la poesia del corpo di Belmondo che va strascicandosi per le strade di quella che a me appariva la città più bella del mondo, Parigi.

Passarono pochi anni, a Parigi ci andai da laureando in Lingue e letterature straniere, lo vidi a Parigi quello che ai miei occhi è il più suggestionante di tutti i film interpretati da Delon, il sublime “Frank Costello faccia d’angelo” di Jean-Pierre Melville, un regista che se ne chiedi oggi a un trentenne ammalato di digitalizzazione non sa neppure chi fosse. Anche lì un personaggio che va in giro lungo la metropolitana parigina, che non sai se lo stanno inseguendo o se è lui che sta inseguendo qualcuno o qualcosa. Anche lì un personaggio che non ha bisogno di parole o di spiegazioni, un personaggio che è quel che sta facendo, il coraggio di cui sta dando prova, la sfida del vivere che sta accettando. Ecco, questo ci insegnarono i personaggi interpretati da questa diade di meravigliosi attori francesi che stanno a fondamento del cinema nuovo. Che la vita è una sfida ambigua che devi accettare, altro che i verbi irregolari greci. Quel cinema fu la nostra vera università, qualcosa che se glielo dici a un ventenne o a un trentenne di oggi ti piglia per pazzo, e sempre che lui sia riuscito a togliere gli occhi dallo schermo del suo telefonino.

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