Roma 2019

Ahi Scorsese, lo spietato De Niro sembra più italiano che irlandese

Un colpo d’ala alla fine, ma nell’insieme delude l’attesissimo “The Irishman”

Anselma Dell'Olio

Roma. Star, leggende, premi Oscar si affollano intorno a Martin Scorsese, regista di “The Irishman”. Dalla sua storica montatrice Thelma Schoonmaker allo sceneggiatore supremo Steven Zaillian (“Schindler’s List”), passando per il suo attore-feticcio Robert De Niro nel ruolo del protagonista Frank Sheeran. C’è anche il grande Joe Pesci (“Goodfellas”, “My Cousin Vinny” ) nel ruolo del suo padrino-protettore Russell Bufalino. Ci sono diversi altri stimati gangster d’autore nel film, come Harvey Keitel, Bobby Cannavale, e il meno celebre ma dotato Ray Romano (più noto per la sitcom “Tutti amano Raymond”). Poi c’è Al Pacino, al suo debutto con Scorsese nel ruolo chiave di Jimmy Hoffa, capo sindacalista dei Teamsters, potentissima corporazione degli autotrasportatori. Hoffa era il sindacalista più noto degli Stati Uniti negli anni 50 e 60, e uno dei più brutali e corrotti. Il film percorre gli anni del suo massimo potere, l’indebolimento dopo la condanna a otto anni per manomissione di giuria, la grazia presidenziale conferita da Richard Nixon, presidente assai beneficiato dai Teamsters con forti contributi economici per le campagne elettorali, per finire con la sua mai risolta sparizione nel 1975 durante il tentativo di riprendere in mano il sindacato. Gran parte del fascino di “The Irishman” è la promessa di farci scoprire come è morto Jimmi Hoffa, un mistero fino a oggi.

 

In tarda età, Sheeran “ha confessato”, all’autore del libro dal quale è stato tratto il film, di essere stato lui l’assassino di Hoffa, insieme con molti altri dettagli sui retroscena politico-criminali del capo e del suo sindacato, senza tacere la propria carriera come sindacalista-sicario per il boss Bufalino e amico-bodyguard di Hoffa stesso (altri beninformati però hanno messo in dubbio il racconto di Sheeran).

 

“The Irishman” era il film più atteso della stagione; anche prima del suo debutto come punta di diamante della Festa del cinema di Roma, i critici internazionali hanno saccheggiato interi dizionari di superlativi per lodarlo. Antonio Monda, abile direttore della Festa, è stato costretto a raddoppiare le proiezioni per soddisfare le richieste torrenziali per i biglietti, subito esauriti. Bisogna capirli, i bramosi di un cinema che unisce divertimento e qualità; sono tempi magri assai per la settima arte, “Joker” a parte. Pur nella sua innegabile professionalità e nel suo impegno, “The Irishman” offre di nuovo e di diverso unicamente il costosissimo effetto speciale dello “svecchiamento” degli attori, al quale si devono i 160 milioni di dollari del budget, esorbitante rispetto alla storia. Effetti speciali e lunghezza a parte (tre ore e mezzo) “The Irishman” è meno memorabile di “Quei bravi ragazzi”, “Taxi Driver”, “Casinò” o dell’indimenticato “Mean Streets”. Sin dall’inizio, la parata di ceffi malavitosi italici, “Goombah” per gli americani, è destabilizzante. Per la prima volta s’è provato a sorpresa un senso di vergogna, sentendoci imparentati con una schiatta di killer spietati, che dopo efferati delitti danno carezze alla figliolanza. Non ci era mai capitato prima. Forse la responsabilità sta nel racconto, che non prende a sufficienza, che sa tanto di già visto. De Niro fa la parte di un oriundo irlandese ma l’attore è talmente identificato con i ruoli da italo-americano che pur avendo qualche goccia di sangue gaelico, a nessuno viene di pensarlo come tale. Si scrive “The Irishman” e si legge “L’italiano”. Uffa.

 

Un metro per notare la tenuta di un film è se e a che punto si guarda l’orologio. Nel caso di “The Irishman”, con la sala trepidante per l’attesa del Capolavoro Annunciato, abbiamo sbirciato per la prima volta dopo – help! – una ventina di minuti. Di mezz’ora in mezz’ora controllavamo quanto delle tre ore e mezzo mancavano. Il miracolo di Scorsese è che invece di fuggire (impossibile senza disturbare una decina di spettatori rapiti) siamo rimasti incastrati, sbuffando solo interiormente, rassegnati al nostro destino. Siamo stati compensati alla fine, quando Sheeran, anziano e vicino alla morte, si confessa con un giovane sacerdote dallo sguardo ceruleo e il viso pulito. Il confessore, che ben conosce il passato dell’irlandese, cerca con delicatezza di spronarlo al pentimento. E’ la scena più commovente – forse l’unica oltre che la meno scontata – del film.

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