"Il Signor Diavolo", quando la provincia fa tremare dalla paura

Esce il 22 agosto il nuovo inquietante film di Pupi Avati, sulla scia del suo "Gotico padano": la campagna divisa tra religione e superstizione

Stefano Priarone

In origine c'era “La casa dalle finestre che ridono”, il film diretto da Pupi Avati nel 1976, che era entrato nell’immaginario collettivo al punto da far coniare ai critici la definizione di “Gotico padano”, peraltro non del tutto accettata dal regista bolognese. “Quando è uscito ‘La casa dalla finestre che ridono’ mi chiamavano il ‘Polanski bolognese’, ma era una definizione limitativa: le mie passioni sono tante, non volevo essere confinato in un genere (come è accaduto al mio amico Dario Argento), in quello che è stato definito Gotico padano o, come io preferisco dire,  ‘Gotico rurale’”, ha detto in conferenza stampa Avati allo scorso Torino Film Festival.

 

È tornato costantemente al genere, ma centellinando le sue apparizioni: con “Zeder” nel 1983, nel 1996 con “L’arcano incantatore” e adesso con “Il signor Diavolo” (tratto dal suo romanzo omonimo pubblicato da Guanda), che esce il 22 agosto. Ma cos’è questo Gotico padano-rurale? “Le regole del Gotico si applicano in ambiente, appunto, rurale o padano, leggi ambiente contadino del nord”, dice al Foglio lo scrittore alessandrino Danilo Arona, che nei suoi romanzi e racconti ha trasfigurato in versione horror la città natale  ribattezzandola Bassavilla (città immaginaria della paura, un po’ come le Castle Rock e Derry di Stephen King).

 

Per Arona gli elementi essenziali sono i “misteri secolari, comunità che sembrano sette, il senso di colpa che coinvolge tutti. E, ovviamente, il Diavolo, sempre in sottotrama, come la follia e le deformità dell’anima e del corpo”. È un mondo molto diverso rispetto a quello di un altro maestro dell’horror come Dario Argento. “Le ambientazioni di Dario Argento sono metropolitane, notturne e legate alle geometrie degli spazi come la piazza di ‘Profondo rosso’, mentre nei film di Avati siamo in campagna, in ambienti all’apparenza rassicuranti a differenza di quelli di Argento, da subito horror”, dice al Foglio la scrittrice Cristiana Astori che ha visto in anteprima “Il signor Diavolo” per scrivere “Pupi Avati. Gotico italiano” (Eus), una raccolta di saggi sul regista uscita in occasione dello scorso Fantafestival di Roma.

 

“Quello di Avati è un orrore alla luce del sole, luminoso, il lato perverso delle sue commedie – spiega Astori –. Da scrittrice, so che far paura e far ridere hanno qualcosa in comune: bisogna preparare la situazione, creare un senso di attesa e Avati riesce a fare benissimo entrambe le cose, piuttosto difficili, utilizzando sempre le stesse location e atmosfere. Inoltre, se Argento ha diretto molti capolavori, è anche andato peggiorando; invece Avati ha girato pochi film horror, dei quali almeno un capolavoro (“La casa dalle finestre che ridono”, anche se il mio preferito è “Zeder”), ma nel corso dei decenni  ha saputo mantenere uno standard molto alto come vediamo in questo ‘Signor Diavolo’, che ho trovato decisamente inquietante”.

 

In “Il Signor Diavolo” siamo nel 1952, nella profonda provincia veneta dove Carlo, un ragazzo del paese, è accusato di avere ucciso Emilio, freak dall’aria turpe e morbosa (ben diverso dai freak “buoni” di tanta fiction degli ultimi decenni) che aveva fatto calpestare inavvertitamente l’ostia consacrata al suo miglior amico, Paolino, morto poco dopo di un’improvvisa malattia. Per Carlo, Emilio è il “signor Diavolo”. Religione e superstizione si fondono, come si vede anche dal titolo, nel quale il Diavolo è chiamato “signore”, forse per rabbonirlo. “Il film nasce dal romanzo omonimo di Avati, una storia affascinante e misteriosa, di cui è consigliata la lettura”, scrive Cristiana Astori. “La messinscena è piuttosto fedele, ma è curioso che per un dettaglio apparentemente insignificante, il finale del film risulti del tutto opposto a quello del libro”.

 

Oltre ad Avati e ai suoi film ci sono altri autori e pellicole del Gotico padano. “Fra gli scrittori Eraldo Baldini, il creatore di Dylan Dog Tiziano Sclavi, Fabrizio Borgio, Paolo Prevedoni, Maurizio Cometto, Christian Sartirana, il sottoscritto, e mi dimentico di sicuro qualcuno”, aggiunge Arona. “Fra i film c’è ‘La villa delle anime maledette’ di Carlo Ausino, ‘Shanda’s River’ di Marco Rosson, ‘La casa nel vento dei morti’ di Francesco Campanini, persino il vecchio e antesignano ‘Hanno cambiato faccia’ di Corrado Farina può essere inscritto nel genere. E credo anche il recente ‘The Nest’ di Roberto De Feo, ambientato nel mio Piemonte”.

 

Una misteriosa sincronia fra Gotico padano e nordamericano si è avuta nel 1983: il romanzo di Stephen King “Pet Sematary” è uscito in America due mesi dopo “Zeder” di Pupi Avati in Italia, dove c’è un terreno che riporta in vita i morti come nel romanzo. Dati i tempi cinematografici ed editoriali, è stata probabilmente una affascinante coincidenza, del resto le storie sono comunque molto diverse, anche se pescano dallo stesso pozzo dei miti. Nel 1989 esce il film di Mary Lambert tratto da “Pet Sematary”  (in italiano intitolato “Cimitero vivente”): pur se con i limiti di un horror molto anni Ottanta senza particolari guizzi è piuttosto fedele al romanzo e nel finale (molto più esplicito rispetto a quello del libro) la regista cita probabilmente “Zeder”, uscito in America nel 1984.

 

Il Gotico padano è campagnolo anche perché nei piccoli centri i cimiteri spesso sono aperti di notte, ci si può tranquillamente andare. “Di notte mi piace andare a visitare i cimiteri di campagna”, ha detto Avati sempre al Torino Film Festival. “Non c’è niente di più forte della paura per stimolare il proprio immaginario. Io sto bene con la paura e con la morte”.

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