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A Cannes ecco Capharnaüm, per chi crede che il cinema possa cambiare il mondo

Mariarosa Mancuso

Il film ha tutto per vincere la Palma d'Oro: regista libanese, profughi, attore bambino con gli occhioni e la condizione di rifugiato siriano. Speriamo che Cate Blanchett non ceda al ricatto

Bambina di 11 anni anni venduta in matrimonio. Fratello di 12, in prigione dopo aver pugnalato qualcuno, che accusa i genitori per averlo messo al mondo. Bassifondi di Beirut. Stracci impregnati di psicofarmaci (in prigione saranno lavati, imbottigliati, venduti un tanto al sorso). Etiope sfruttata sul lavoro e da chi dovrebbe procurarle falsi documenti. Neonato con la boccuccia a cuore senza una mamma che gli badi, vendibile pure lui per 500 dollari. Una pentola usata come carrozzina (un po’ di furbizia non guasta, l’intermezzo tenero e comico fa miracoli). Schifezze da mangiare, quando ci sono. Corde al piede o catene, perché i mocciosi non rincorrano chi li abbandona per strada.

 

Nadine Labaki mette insieme tante miserie che ci si vergogna di aver organizzato una cena dopo la proiezione. “Capharnaüm” – sta per “gran casino”, viene da Cafarnao, città della Galilea dove Gesù cominciò la sua fortunata predicazione – ha tutto per vincere la Palma d’oro. Regista libanese, scoperta proprio qui a Cannes nel 2007 con le cerette di “Caramel”. Profughi. Attore bambino con gli occhioni, il ciuffetto da James Dean e la condizione di rifugiato siriano. A tratti, anche cinema fatto bene e pieno di energia. Quando l’insopportabile cornice del processo ai genitori sparisce, e il grandicello pieno di risorse si fa carico del moccioso color cioccolato.

  

 

 

Speriamo che la presidente di giuria Cate Blanchett non ceda al richiamo dell’attualità, degli ultimi che saranno i primi nel regno dei cieli, delle quote confetto, della Sony che ha comprato “Capharnaüm” per distribuirlo negli Stati Uniti (anche in Sudamerica, ma lì avranno meno voglia di vederlo). Dovranno cambiargli il titolo, per servire il trionfo di infanzia sofferente ai convinti che il cinema possa cambiare il mondo. Per non rovinare la cena, il lieto fine: i cattivi puniti, il pupetto cullato dalla mamma – non male per gente che non aveva documenti – e la fotografia per l’agognato passaporto.

 

A parte il ricattone, gli ultimi giorni del concorso non hanno offerto nulla di rilevante. C’è stata un’altra fuga di spettatori durante “Un couteau dans le coeur” di Yann Gonzalez, con una scheletrica Vanessa Paradis produttrice di film porno gay anni 70. Prova provata che mancavano film decenti da mettere in concorso. Non può essere colpa solo di Netflix. I gusti – leggi: le impuntature e le idiosincrasie – del direttore Thierry Frémaux devono aver contato qualcosa. Fino alla beffa: finisce così a coccolarli, poi mordono la mano che li ha nutriti (o perdonati, nel caso di Lars von Trier). “Le livre d’image” di Jean-Luc Godard, campionissimo del cinema d’autore celebrato a Cannes 2018 – dopo che il festival del 1968 lo aveva fatto chiudere – non sarà distribuito nelle sale. Solo sul canale Arté e nei musei come installazione. Cannes 2019 avrà come sottotitolo: in ginocchio da Netflix.

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