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Sovranismo culinario

La passione per le tradizioni imbalsamate. Ma il vero genio dell'Italia sta nella creatività

Alberto Grandi

L’Italia festeggia l’Unesco, ma dietro l’orgoglio si nasconde una verità scomoda: abbiamo trasformato una tradizione viva e contraddittoria in una narrazione turistica buona per rassicurarci

L’Italia ha finalmente ottenuto il riconoscimento dell’Unesco per la sua cucina. E nel grande teatro nazionale, in cui ogni pretesto diventa identità, la notizia è stata accolta come una liberazione collettiva. Non tanto perché servisse davvero – il mondo mangiava italiano anche ieri – ma perché quel bollino internazionale sembrava necessario per mettere a tacere un’ansia antica, un complesso di inferiorità che da anni rode l’orgoglio gastronomico nazionale. La Francia e il Giappone – riconosciuti rispettivamente nel 2010 e 2013 – erano diventati il tarlo nella testa dei gastronazionalisti: “Perché loro sì e noi no?” Come se la grandezza di una cucina dipendesse da un certificato più che dalla sua vitalità. Eppure, paradossalmente, il nostro vero punto di forza sarebbe stato proprio quello di rivendicare l’assenza di un unico canone. (Grandi segue a pagina quattro)

E non per via del nostro regionalismo gastronomico (in gran parte inventato anche quello) ma per la natura fluida, contraddittoria, impulsiva della nostra storia alimentare. Potevamo dire al mondo: la nostra tradizione è breve, a volte spaccona, spesso improvvisata, ma epica proprio perché non è stata mai codificata dall’alto. E invece, nel momento di massima visibilità, abbiamo scelto il percorso più comodo: confezionare una caricatura turistica dell’Italia a tavola e consegnarla all’Unesco come se fosse la summa della nostra identità gastronomica.

Il problema non è l’Unesco. Il problema è l’uso che ne abbiamo fatto, trasformando l’occasione in una parodia geopolitica: l’Italia “sovrana” che difende la sua cucina dai fantasmi del globalismo, proprio mentre dimentica che quella cucina – tutta quella cucina – è figlia dell’apertura. Senza apertura non ci sarebbe il pomodoro; senza commercio globale non ci sarebbe la pasta industriale; senza il mercato comune europeo non ci sarebbe stata la rivoluzione dei consumi che ha sradicato per sempre la fame dalle case italiane. La nostra identità gastronomica non è l’eredità di un’Arcadia contadina, ma il risultato del capitalismo, delle migrazioni, della tecnologia e del dopoguerra: un’Italia che, per reagire alla miseria, ha imparato ad assorbire più velocemente degli altri ciò che arrivava da fuori. E qui sta la contraddizione grottesca del sovranismo culinario: proclamare la difesa della tradizione mentre si tenta di imporre una sua versione imbalsamata, costruita a posteriori; gridare contro la globalizzazione dopo aver usufruito per decenni dei suoi vantaggi; pretendere autenticità in un Paese che ha fatto della contaminazione il suo principale motore evolutivo. La cucina italiana non è mai stata un monumento: è un animale vivo, che sopravvive perché cambia. E se c’è una legge che la governa – una legge darwiniana, letteralmente – è che vince chi si adatta, non chi si chiude nel recinto della purezza. Se la tradizione italiana ha avuto successo nel mondo non è perché conservava un’essenza immutabile né nelle ricette, né nel rapporto degli italiani con il cibo e con lo stare a tavola, ma perché sapeva muoversi. Emigrare, trasformarsi, ibridarsi: basta guardare alle cucine italiane nel mondo, dove piatti inventati in Venezuela o negli Stati Uniti tornano a casa e diventano parte del repertorio nazionale, con la stessa naturalezza con cui un tempo si adottavano il mais o la patata. L’innovazione travestita da tradizione è il nostro vero genio: una vocazione che oggi, però, si tende a negare in nome di un’ideologia dell’autenticità che non ha nulla di autentico.

E allora, di fronte al riconoscimento dell’Unesco, più che festeggiare sarebbe utile porsi una domanda scomoda: cosa abbiamo davvero presentato come patrimonio immateriale? La storia reale dell’Italia – contraddittoria, aperta, mobile – oppure la sua versione da catalogo turistico, nitida come una cartolina e falsa come una fiction ben fotografata? Oppure, terza ipotesi ancora più sorprendente: ciò che alcuni promotori della candidatura dicono di aver realmente presentato, cioè non una tradizione, non una cucina, ma addirittura “il rapporto degli italiani con il cibo”, definito con categorie psicologiche tanto elastiche da sembrare tratte da un manuale di sociologia da autobus, di quelle pensate per spiegare tutto e quindi non spiegare nulla.

La prima opzione meriterebbe il riconoscimento; la seconda lo banalizza; la terza lo trasforma in un esercizio di autoanalisi nazionale improvvisata, più vicina alla retorica motivazionale che alla storia.

Invece di raccontare al mondo la nostra forza evolutiva, abbiamo deciso di replicare il peggiore dei riflessi italiani: scambiare il marketing per identità, la burocrazia per cultura, l’immobilità per protezione. Una sorta di “tutela del paesaggio gastronomico” che però tutela solo la narrazione, non la vita reale della cucina italiana, che continua – fortunatamente – a cambiare ogni giorno, malgrado chi vorrebbe fermarla a colpi di decreti, parole d’ordine e nostalgie preconfezionate.

La verità è semplice quanto imbarazzante: l’Italia non aveva bisogno dell’Unesco per sentirsi grande. Aveva bisogno di liberarsi dell’idea che una cucina valga solo se certificata. Ma siccome l’insicurezza è dura a morire, abbiamo preferito cercare una medaglia invece di riconoscere il nostro vero primato: non essere come i francesi o i giapponesi. Essere italiani. Cioè figli di una storia fatta non solo di creatività, ma di fame vera, di pellagra, di espedienti, di generazioni intere che fino a pochi decenni fa avrebbero dato qualunque cosa per un piatto pieno, altro che tradizione immutabile. E’ da lì – dalla necessità, non dalla retorica – che nasce non solo la nostra abilità di trasformare tutto ciò che tocchiamo, ingredienti, mode, influssi, perfino disastri, in qualcosa di nuovo, ma anche il bisogno quasi compulsivo di costruire un mito consolatorio su noi stessi: un racconto dorato che servisse a dimenticare, o almeno a tenere a distanza, la fame antica che ci ha segnati per secoli.

Ed è questa, non la caricatura oleografica appena certificata, l’unica tradizione che valga davvero la pena difendere.

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