La cristianità è davvero finita. Da un pezzo

Il cardinale Matteo Zuppi nel tritacarne social per aver detto quel che aveva già denunciato Pasolini decenni fa. E che i vescovi olandesi notavano già negli anni Venti del Novecento

Matteo Matzuzzi

Non si tratta di bandire o musealizzare tutto quel che appartiene al vecchio mondo cristiano: più semplicemente, la questione è capire una volta per tutte che il tempo delle minoranze – creative o meno – non era una visione su tempi molto futuri, ma è il presente

Siamo alla fine della cristianità, ma non è finito il cristianesimo. Questo ha detto il cardinale Matteo Zuppi intervenendo la scorsa settimana alla presentazione dell’ultimo libro di Aldo Cazzullo su san Francesco. “Mi fanno ridere quelli che sostengono la Chiesa sia in crisi: lo scoprite adesso?”, ha aggiunto l’arcivescovo di Bologna. Frasi che subito sono finite nel tritacarne social, non solo in Italia, quasi si trattasse di eresia manifesta. Ma che l’epoca della cristianità sia finita – e da un pezzo – non è certo una fissa “modernista”. Anni fa, su questo giornale, il cardinale olandese Wim Eijk, non certo accusabile d’essere un porporato d’orientamento liberal, parlando della crisi della Chiesa nei Paesi Bassi diceva che “avevamo un surplus di sacerdoti, ordini religiosi congregazioni. Molti missionari nel mondo provenivano dalla piccola Olanda. Ma presto si è capito che le fondamenta di quella orgogliosa colonna cattolica erano molto meno solide di quanto sembrasse”. E le fondamenta iniziarono a tremare non all’indomani del Concilio, ma qualche decennio prima, fra gli anni Venti e Trenta.  Quel che è accaduto dopo ne è una conseguenza: “Subito dopo la Seconda guerra mondiale, la vita della Chiesa in Olanda si è rivelata essere basata soprattutto su costumi sociali e poco su un rapporto personale tra le persone e Cristo. A causa di questa limitata profondità della loro relazione con Cristo, i cattolici olandesi si sono trovati senza difese contro l’individualismo che iniziava a emergere negli anni Sessanta” In Francia, l’arcivescovo di Parigi, il cardinale Emmanuel Suhard, nel 1947 scriveva  Essor ou déclin de l’Église e chiese a Henri Godin e Yvan Daniel di stilare una relazione che come titolo aveva una domanda: “Francia, paese di missione?”.

 

Pier Paolo Pasolini descrisse dal suo punto di vista esterno alla Chiesa, da “non credente che ha nostalgia della fede” quel cambiamento: e come Eijk vedeva nell’aumento della prosperità la causa, anche il poeta di Casarsa accusò il consumismo di “totalitarismo” che “non tollera altre religioni, nemmeno quella del sacro”. Tutto il portato delle formule di pensiero e dei costumi che avevano retto l’edificio andarono in crisi nel primissimo Novecento, forse con la Prima guerra mondiale e lo choc per la tragedia delle trincee, forse per la rapida mutazione industriale che comportò in una manciata di decadi la rottura dei ritmi di vita che avevano sorretto il mondo occidentale per secoli. Ma il cristianesimo, ha detto Zuppi, non è finito: un conto sono le formule e le forme, i riti e la dottrina, altra cosa è l’incontro con una Persona (Cristo) che ti cambia. 

 

Confondere i piani è pericoloso, perché può armare falangi di cristiani, portandoli a diventare essi stessi totalitari per difendere la ridotta. Il domenicano Adrien Candiard scrisse in La speranza non è ottimismo. Note di fiducia per cristiani disorientati  (Emi) che “i ricordi sono forse più dolci, ma non avranno mai il gusto della realtà. Niente è meno cristiano che continuare a stringere tra le braccia il cadavere della vecchia cristianità: lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti e guardiamo il mondo in faccia”. Non si tratta di bandire o musealizzare tutto quel che appartiene al vecchio mondo cristiano, non c’entrano qui le liturgie vetus ordo che attirano sempre più giovani, specie fuori dai confini italiani (e sarebbe bene che anziché irridere, si cercasse di studiare e comprenderne il perché ciò accade): più semplicemente, la questione è capire una volta per tutte che il tempo delle minoranze – creative o meno – non era una visione su tempi molto futuri, ma è il presente.

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