Le storia

Le monache tra il Libano e la Siria, dove Dio e la fede vanno oltre le guerre

Maurizio Crippa

Una mostra che racconta delle cinque suore che, quasi vent'anni fa, lasciarono la placida provincia di Pisa per andare a costruire un monastero ad Azer, nella provincia di Homs, in quella che era la terra calpestata un tempo da Pietro e Paolo. Una comunità cristiana sopravvissuta a conflitti, odio e pandemia

Sono trascorsi quasi vent’anni da quando quattro monache di clausura, dell’Ordine cistercense della Stretta Osservanza partirono dall’abbazia di Valserena, nella placida provincia di Pisa, accettando la proposta del loro abate generale di trasferirsi in un luogo lontano, di certo più aspro, al confine tra il Libano del nord e la Siria. Il compito assegnato era edificare e abitare un convento di clausura in quella terra percorsa un tempo da Pietro e Paolo, e dove nei primi secoli cristiani è nata l’esperienza del monachesimo. Il luogo si chiama Azer, nella martoriata provincia di Homs, un’area rurale a maggioranza musulmana, alawiti e sunniti, e dove in due piccoli villaggi i cristiani sono cinquecento in tutto: maroniti, latini, greco-cattolici e ortodossi. Era il 2005, i cistercensi avevano vissuto come una chiamata la morte dei sette confratelli rapiti e uccisi nel 1996 a Tibhirine, in Algeria, una incredibile storia di fede e dialogo religioso condotta fino al martirio raccontata anche nel magnifico film Uomini di Dio. Quattro donne hanno raccolto la loro testimonianza, vivendo la Regola di Benedetto in un luogo in cui avvenimenti antichi e moderni hanno aumentato le guerre anche religiose. Da millecinquecento anni i monasteri, e da mille quelli dei figli e delle figlie di Cîteaux, nascono così, naturalmente cioè per grazie e fede: per una necessità, una chiamata, una pura testimonianza per la quale le monache o i monaci lasciano il loro luogo e ne costituiscono un altro, cui secondo il principio della “stabilitas loci”, legheranno tutta la propria vita. Anche o soprattutto nelle difficoltà.

  

Nei primi anni le monache hanno convissuto col terrore dei mercenari che entravano dal Libano, ma i buoni rapporti con la popolazione crescevano. Poi nel 2011 è scoppiata la guerra. Devastazioni enormi, massacri, l’esodo di milioni di persone. Attorno il paesaggio si faceva d’odio, come per gli “uomini di Dio”, ma quello spazio sacro preservava una profezia di pace per tutti. Poi sono arrivati il Covid, l’epidemia di colera e infine nel febbraio 2023 il terremoto. Ma le monache sono rimaste ad Azer. Un convento di clausura al confine tra il Libano e la Siria può sembrare “stoltezza per i pagani”, ma i frutti che crescono dicono il contrario. La Croce di Fondazione del monastero Beata Maria Fons Pacis fu benedetta nel 2008. Dal 2017 alle quattro monache se n’è aggiunta un’altra. Un piccolo segno in un paese in cui la comunità cristiana nel 2005 era il 10 per cento della popolazione e oggi è meno dell’1,5 per cento. Ma con l’aiuto di organizzazioni di volontariato come il Banco delle Cose - Banco Building, che  fa da intermediazione per donazioni dalle industrie agli enti no profit, molto si è edificato, compreso un pozzo che fornisce acqua a tutto il vicinato.
 

Su un terreno di dieci ettari oggi ci sono la chiesa, il chiostro, il monastero, casette per l’ospitalità, un giardino. Il contrario della distruzione, in una terra di violenze ed esodi. Fatti che hanno trasformato il monastero nel simbolo di una amicizia possibile fra diverse fedi. Anche la popolazione musulmana ormai chiama le monache “le nostre suore”. A raccontare questa storia silenziosa e straordinaria, e la testimonianza di una pace e una convivenza possibili a partire dal rispetto religioso, c’è una bella piccola mostra con video, interviste, testi e foto che ora sbarca per qualche giorno a Milano. Si intitola “Azer. L’impronta di Dio. Un monastero nel cuore della Siria”. Presentata ieri al Centro culturale di Milano, sarà aperta da oggi al 28 gennaio presso il monastero San Benedetto al 10 di via Felice Bellotti.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"