Il commento

Che Papa Francesco parli di ambiente è opportuno. Il problema è come lo fa

Roberto Volpi

Il Pontefice nella sua Laudate Deum finisce per non stupire. E il motivo è perché manca qualcosa: una considerazione su cos'è sapiens oggi

Che Francesco intervenga sui temi del riscaldamento globale e delle trasformazioni climatiche, l’ordito che dovrà tenere in piedi il futuro dell’uomo, delle specie, della vita sul pianeta, e che potrebbe cedere sino a sfaldarsi, è senz’altro opportuno. È il modo in cui ne parla, e che per nove decimi del testo dell’esortazione è quello di un think tank di esperti votato alla causa, e che non nutre dubbi né sulla bontà né sulle ragioni di quella causa, che lascia perplessi. Fa difetto nell’esortazione di Francesco, Laudate Deum, proprio quel che di più ci aspetteremmo: il senso profondo del magistero che proviene dall’interno della Chiesa, che sale da essa, dalle sue istanze sì umane ma che si nutrono del legame con il divino. 

Così, finisce per non stupire, in questa fin troppo umana esortazione, che manchi qualsivoglia considerazione sullo stato di sapiens, dell’uomo di oggi. Difficile, se non proprio impossibile, che si possa affrontare un tema delle dimensioni e complessità del cambiamento climatico senza partire da qui: che ne è di sapiens oggi. Francesco non lo fa, negandosi così capacità interpretative davvero efficaci. Sapiens, ecco come stanno le cose, ha compiuto, dal secondo dopoguerra, un’evoluzione – che ha tutte e solo basi culturali e nient’affatto genetiche, sia detto en passant – come mai nei 180-200 mila anni dal suo apparire nell’Africa sud orientale.

Intanto ha vinto, prima volta nella storia, la scommessa della vita. Si campava mediamente tre-quattro decenni, fino a poco più di un secolo fa. Oggi non c’è paese al mondo con una speranza di vita sotto i 60 anni; una durata media della vita che cento anni fa non raggiungeva neppure il più ricco dei paesi del mondo. Siamo otto miliardi, a calcare il suolo della terra, quando ancora nel 1950 non eravamo che 2,5 miliardi. Indice incontrovertibile del clamoroso successo di sapiens, della sua capacità di migliorarsi e progredire. Ora, questo balzo inenarrabile non deriva affatto da uno slancio delle capacità riproduttive umane ma dal continuo, inarrestabile precipitare dei livelli di mortalità, e segnatamente di quella del primo anno e delle età iniziali della vita. Tra il secondo dopoguerra e oggi la mortalità infantile è crollata dei nove decimi anche nel più povero e malmesso dei paesi del mondo. All’indomani dell’Unità d’Italia, per stare a un esempio che ci compete, si contarono 260 neonati morti nel primo anno di vita ogni mille nati. Oggi sono 2,5: oltre cento volte di meno. Sono dati che dovrebbero far riflettere quanti pensano che a otto miliardi ci siamo arrivati a suon di figli su figli – mentre è vero tutto il contrario, giacché non c’è paese in cui il numero medio di figli per donna non sia diminuito in misura considerevole.

Dunque sapiens ha riportato una vittoria sulla morte impensabile di queste proporzioni. Ma ciò implica che al fatto di essere più che triplicati in settant’anni se ne aggiunge un altro non meno decisivo: in termini di consumo delle risorse di ogni tipo non c’è paragone tra un aumento della popolazione dovuto al crollo della mortalità e uno dovuto a un aumento di figli. Il primo è straordinariamente più dispendioso, sotto ogni punto di vista. E basti pensare, per capirlo, a quel che comporta assicurare un livello di vita sotto ogni aspetto dignitoso a popolazioni in cui la proporzione di anziani e vecchi non fa che aumentare. Ecco, nell’esortazione non c’è niente di tutto questo. Il mondo di oggi potrebbe essere quello di Gesù, quando gli abitanti erano 150-200 milioni e due nati su tre non arrivavano a età adulte. Francesco dice il peggio del “paradigma tecnocratico”, si scaglia contro l’illusione della crescita illimitata, non ama certo la globalizzazione, meno ancora il dissipativo stile di vita occidentale: tutte cose che avrebbero distrutto “il rapporto armonioso uomo ambiente”. Spiace far notare a Francesco che quel rapporto non è mai stato tale. Nel “rapporto armonioso” si moriva come mosche, con tutto il rispetto. 

Siamo otto miliardi e viviamo, in media, oltre 73 anni di vita. Grazie alla globalizzazione, al progresso tecnico, allo stile di vita occidentale. È indiscutibile: ciò ha prodotto anche squilibri ambientali e pericolose dissipazioni. Ma o si parte da qui o qualunque esortazione, anche quella animata dalle migliori intenzioni, rischia di perdersi nel nulla.

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