(foto d'archivio Ansa)

Il tradimento dei chierici

Matteo Matzuzzi

Dalla messa sul materassino al monopattino sull’altare. La pericolosa spettacolarizzazione del “Mistero più grande”

"Riconosco di aver mancato nell’attenzione necessaria alla valorizzazione di un Mistero così grande e così indegnamente affidato alle nostre umili mani. Ho sempre vissuto la celebrazione eucaristica con profonda consapevolezza dell’immenso Mistero di amore che esso cela e veicola e in otto anni di ordinazione quella è stata la prima volta che non ho indossato almeno camice e stola. Ma mi rendo conto che anche solo una volta è di troppo. Chiedo umilmente scusa dal profondo del cuore anche per la confusione generata dalla diffusione mediatica della notizia e delle immagini: non era assolutamente mia intenzione che avesse tale risalto, tanto che per la celebrazione avevamo scelto un luogo inizialmente isolato e lontano dagli ombrelloni (anche se poi qualche persona, avendoci visti da lontano, si è aggiunta alla celebrazione)”.


Il Papa: “Il sacerdote che presiede la celebrazione dice: ‘In alto i nostri cuori’, non dice: ‘In alto i nostri telefonini per fare la fotografia!’”


I fatti: domenica 24 luglio, don Mattia Bernasconi, ventisettenne vicario della diocesi di San Luigi Gonzaga a Milano, si trovava in Calabria con un gruppo di ragazzi dell’oratorio. Era l’ultimo giorno della gita, il programma prevedeva la celebrazione della messa in una pineta (quindi all’ombra) e poi il ritorno a casa, al nord. Giunta sul luogo prescelto, la comitiva ha scoperto che il posto era già stato prenotato da altri e non restava altro che trasferirsi in una spiaggia davanti al mare di Capo Colonna. Non c’erano alberi, niente ombra. E la messa? In acqua. Tutti insieme. Unico posto, tra le altre cose, non rovente. Alcuni bagnanti, colpiti da quel gruppo di giovani guidato da un prete altrettanto giovane, hanno offerto un materassino che fungesse da altare. La scena è stata immortalata ed è, ovviamente, presto finita in rete. La diocesi locale, subito ripresa da quella di Milano, ha biasimato il gesto. Niente condanne o messa in mora del povero prete, ma un richiamo al significato del gesto (e dei simboli) che don Mattia stava compiendo in mare.

Il caso è chiuso, anche se il sacerdote è indagato dalla Procura di Crotone per “offesa a confessione religiosa”, e le scuse sono particolarmente sentite, al punto da far dire al sacerdote che “nella messa che lunedì pomeriggio ho celebrato in chiesa in parrocchia a San Luigi ho chiesto perdono al Signore per la mia superficialità che ha fatto soffrire tanti. Spero che possiate comprendere le mie buone intenzioni, macchiate da troppa ingenuità, e accettare la mia sincera richiesta di perdono”. Il problema è proprio quello evidenziato dalle due diocesi: capire quel che si fa quando si celebra. Questione non da poco da cui non se ne esce. “La partecipazione all’Eucaristia ci fa entrare nel mistero pasquale di Cristo, donandoci di passare con Lui dalla morte alla vita, cioè lì nel calvario. La Messa è rifare il calvario, non è uno spettacolo”, disse Papa Francesco qualche anno fa, aggiungendo – e il punto è particolarmente dolens – che “a un certo punto il sacerdote che presiede la celebrazione dice: ‘In alto i nostri cuori’, non dice: ‘In alto i nostri telefonini per fare la fotografia!’. No, è una cosa brutta! E vi dico che a me dà tanta tristezza quando celebro qui in Piazza o in Basilica e vedo tanti telefonini alzati, non solo dei fedeli, anche di alcuni preti e anche vescovi. Ma per favore! La Messa non è uno spettacolo: è andare ad incontrare la passione e la risurrezione del Signore”. 


Il sincero pentimento del giovane sacerdote che ha celebrato in mare e le domande su quanto siano adeguatamente formativi i seminari


Nei mesi del lockdown, sembrava che la partecipazione alla messa fosse questione capitale: appelli pubblici, social invasi da pianti e lamenti di chi protestava, chiedendo la messa, la possibilità di uscire dai casa per entrare in una chiesa, comunicarsi e pregare. Il governo dell’epoca disse di no, sorretto dalla non richiesta opinione di qualche virologo improvvisatosi canonista che chiudeva la questione asserendo che tanto la messa la si può vedere in tv. Tra un caffè durante l’omelia, magari una capatina in bagno e – perché no – un aperitivo domestico a inframmezzare la celebrazione se l’orario scelto era vicino al pranzo. Per qualche tempo sembrò che la “questione della messa” fosse divenuta centrale: sociologi, vescovi e teologi riflettevano su questa improvvisa necessità di sacro che si faceva largo nelle famiglie italiane. Sarà la paura? La voglia di pensare alle cose di lassù? O forse la semplice ricerca di una scusa per uscire di casa in alternativa al giro dell’isolato con cane al guinzaglio?

 

In ogni caso, finito il lockdown, le chiese non si sono riempite né l’affluenza è stata quella – di per sé già scarsa – del pre pandemia. E i discorsi sull’eucaristia, sull’adorazione e le Sacre scritture sono stati rapidamente sostituiti dalle dispute sulle passerelle doppie in spiaggia, sulle discoteche chiuse, sulle mascherine da indossare a bordo treno. L’ingenuità del sacerdote ambrosiano è sincera e documenta un fatto evidente: in gran parte dei casi, la messa è offerta al Popolo di Dio alla stregua di uno show. Uno spettacolo, come diceva il Papa. I parroci che vedono i banchi sempre più vuoti, il numero dei funerali che aumenta di anno in anno così come i capi canuti presenti alle celebrazioni, provocano una frenesia che si risolve nella voglia di attrarre. Ma non con i semplici e antichi strumenti che la Chiesa mette a disposizione, la forza della Parola e una buona catechesi. No, lo fa rendendo la messa “meno noiosa”, così – si dice ingenuamente – anche i bambini e i giovani ci vanno. Preti che si mascherano, che corrono da un capo all’altro dell’edificio con i paramenti addosso, battimani da recita scolastica a introdurre il Vangelo (l’immortale Alleluia delle lampadine che resiste al passare delle generazioni). Celebranti che dopo la benedizione finale scattano in monopattino lungo la navata (è successo, a Dublino), nel delirio ridanciano dei fedeli. La necessità di fare qualche battuta, prima durante e dopo l’omelia. Omelie che, pur con le storielle e le barzellette, spesso durano un’eternità provando la psiche dei poveri e pochi parrocchiani convenuti. 

 

Sono infatti loro, i preti, i primi a mancare nel “valorizzare un Mistero così grande”. Non è questione di antico o nuovo rito, ci sono messe spettacolarizzate sia tra i fedeli del messale tridentino sia tra quelli della messa di Paolo VI. L’esibizione di camici con pizzi ad altezza ascella che paiono più tende non è molto distante, quanto a gusto, del camicione extralarge con zip e ciabatte ai piedi. In medio stat virtus, dicevano i saggi. Ci sono celebrazioni seguite dal mondo tradizionalista in cui si respira il mistero e la fede profonda (l’ha riconosciuto a giugno anche Enzo Bianchi, non tacciabile di essere seguace del messale di san Pio V, ricordando l’esperienza feconda dei monaci di Le Barroux), così come è possibile assistere a messe “nuove” edificanti e fortificanti in cui si è immersi totalmente nel Mistero. Il problema è quando si pensa, anche solo per banale superficialità, che l’eucaristia sia cosa propria e che quindi possa essere cambiata, adeguata, aggiornata a seconda delle contingenze. Non c’era ombra per dire messa? E allora tutti in acqua, in costume, col materassino e le creme solari, stando attenti che le ostie non finiscano tra le meduse e le alghe. Non sarà, forse, un problema di formazione dei sacerdoti? Non sarà che la messa viene sovente ridotta a mera ripetizione meccanica di gesti senza quell’innervazione spirituale che sarebbe necessaria? Se i sacerdoti sono i primi a rendere, implicitamente, la celebrazione dell’eucaristia un atto simile al riassetto della libreria del salotto, è arduo pensare di conquistare fedeli tiepidi o poco propensi a dedicare uno spazio della propria giornata al rapporto con il sacro. Nessuno viene preso, rapito e conquistato dalla messa in ordine alfabetico dei libri sulle mensole. Invece è l’epoca in cui si fanno ore di coda per entrare nella basilica di San Pietro quando celebra il Papa e mentre lui passa ci si dimentica di fare il segno della croce, presi come si è a scattare foto, a immortalare il momento, a rendere eterno l’evento di essere lì con il vicario di Cristo, sempre ammesso che chi fa lo scatto e lo posta su Instagram sappia che quello è il vicario di Cristo e sappia, naturalmente, cosa significhi tale definizione.


Non è questione di antico o nuovo rito, ci sono messe spettacolarizzate sia tra i fedeli del messale tridentino sia tra quelli della messa di Paolo VI


Ci si dimentica dove si è, di quello che si sta facendo, cioè – per dirla ancora con Francesco – “il Calvario”. E invece, ecco “in alto i nostri telefonini per fare la fotografia!’. La soluzione però c’è e paradossalmente affonda le radici nella crisi, nell’accettazione di essere minoranza. Senza andare alla ricerca, affannosa e affannata, di nuovi fedeli. Ha scritto Pierangelo Sequeri su Avvenire pochi giorni dopo il caso della celebrazione sul materassino: “L’epoca della messa sotto casa, programmata per riempire tutti gli orari e tutti gli spazi della chiesa, sta per congedarsi. Non sarà da sostituire con il servizio in camera (per noi lo era già diventato). Il mega raduno dell’assemblea che riempie la chiesa o lo stadio diventerà più raro (e sperabilmente più genuino). La Messa diventerà certamente più preziosa. Il suo luogo sarà più prezioso; il suo tempo sarà più prezioso. Ci saranno più ospiti che fedeli, però: come del resto ai tempi di Gesù. E sarà bellissimo. Molti abbonati che ora fanno i difficili forse troveranno la cosa troppo scomoda, e perderanno la strada. Molti che non pensavano di avere un posto saranno stupiti ed emozionati di non essere più ‘quelli di fuori’, con Gesù che passa fra i tavoli: con tanto di foto. Certo, dovranno avere la delicatezza di indossare almeno il vestito della festa, visto che tutto il resto è gratis”. Notava don Giuliano Zanchi, direttore della Rivista del clero italiano che “ormai le nostre assemblee hanno cominciato a somigliare a platee che, anche quando animate da una certa complicità partecipativa, hanno assimilato gli schemi mentali tipici dello spettacolo”. Non è un caso, aggiungeva, “che i molti che sono passati dalla messa in presenza a quella in video non abbiano percepito una vera differenza”. Se ne parla da decenni e non serve troppa fortuna, entrando in una chiesa qualche minuto prima della messa per accorgersi che si sta preparando uno spettacolo: telecamere piazzate davanti all’altare per mandare la celebrazione in streaming, lettori – non sempre adeguatamente formati – che compulsano i Libri liturgici, coristi – non sempre portati per il bel canto, e non è un peccato né un dramma, umiltà sarebbe riconoscerlo – che provano i motivetti che animeranno la liturgia. I banchi vuoti, ché saranno riempiti dai fedeli che entreranno in chiesa quando vorranno: chi al Gloria e chi al Vangelo, chi all’offertorio e chi direttamente alla consacrazione, magari con l’iPhone acceso a fare da sottofondo al momento più sacro. Il sacro, appunto: sempre più simile al sacro Graal da cercare.


Ratzinger non criticò le riforme  del Vaticano II, ma un certo “infantilismo pastorale che degrada la liturgia  al rango di circolo del villaggio”


Diceva già nel 1975 il professor Joseph Ratzinger che “anche con la semplificazione e la formulazione meglio comprensibile della liturgia, è chiaro che deve essere salvaguardato il mistero dell'azione di Dio nella Chiesa; e, perciò, la fissazione della sostanza liturgica intangibile per i sacerdoti e le comunità, come pure il suo carattere pienamente ecclesiale. Pertanto ci si deve opporre, più decisamente di quanto sia stato fatto finora, all'appiattimento razionalistico, ai discorsi approssimativi, all’infantilismo pastorale che degradano la liturgia cattolica al rango di circolo di villaggio e la vogliono abbassare a un livello fumettistico”. C’è sempre l’ansia di fare rumore, di riempire quello che si pensa sia un vuoto. Ma servirebbe solo più silenzio; un silenzio che, per dirla con Ratzinger, “non è una pausa in cui mille pensieri e desideri ci assalgono, ma un raccoglimento che ci porta pace interiore, che ci lascia respirare e scoprire l’essenziale”.  “Il Padre dice una sola Parola: è il suo Verbo, il Figlio suo. La pronunzia in un eterno silenzio ed è solo nel silenzio che l’anima può intederla”, si legge nelle Massime di san Giovanni della Croce. Meno materassini e telefonini, più silenzio. Almeno in Chiesa.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.