(foto Ansa)

L'umile e rocciosa certezza che pervade la vita di Joseph Ratzinger

Roberto Colombo

Passione per la verità e amore per la libertà genuina hanno sempre guidato la vita del Papa emerito, anche nella burrasca di fatti orrendi di cui lo accusano

Una lettera, quella di Benedetto XVI in risposta alle accuse di aver “coperto” dei preti abusatori di minori, che è stata scritta da un uomo debole nel corpo e fragile nei sensi ma forte nell’animo e tenace nel pensiero. Un uomo di novantacinque anni che sente avvicinarsi il giorno in cui, attraversata “la porta oscura della morte” – così l’ha chiamata lui stesso – vedrà Dio “faccia a faccia”, con i suoi occhi, come dice Giobbe. E questa è la umile e rocciosa certezza che pervade tutta la lettera e la vita stessa di Joseph Ratzinger in questo momento. Di fronte alla propria morte nessuno può barare, perché da questo baratro ultimo, definitivo, ci salva solo la Verità della vita: Gesù Cristo. E a questa Verità, Benedetto ha affidato la sua difesa: il Signore “in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito)”.

Chi ha scritto le righe della lettera non è un freddo calcolatore della eredità spirituale e morale che consegna alla Chiesa e al mondo, una persona preoccupata di tutelare il suo buon nome di fronte ai posteri, un edificatore della immagine di santità legata al proprio episcopato e papato, ma un uomo che sa di avere la coscienza e le mani pulite da presentare al Giudice supremo e misericordioso su questa dolorosissima vicenda degli abusi sessuali nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga compiuti da sacerdoti tedeschi. Una eredità la si trasmette, non la si difende (caso mai, toccherà ad altri difenderla). Il buon nome è riconosciuto, non costruito. La santità si diffonde da sola, per osmosi, non per propaganda.

Benedetto XVI è testimone della libertà più grande che si possa sperimentare sulla terra: non avete timore del giudizio degli uomini (ecclesiastici e laici) e di quello della storia (presente e futura), ma solo di quello di Dio. Timete Dominum et nihil aliud. Passione per la verità e amore per la libertà genuina, propria e di tutti, hanno guidato, e continuano a farlo fino ad oggi, la vita del Papa emerito, anche nella burrasca di fatti orrendi e delle loro vittime di fronte alle quali egli dichiara senza reticenze: dinnanzi a voi sta “la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono”.

Di fronte allo scoglio di questo coraggio, mite e fermo al medesimo tempo, vanno a naufragare tutte le strumentali letture della lettera di Benedetto XVI, che vorrebbero accusarlo di ciò che egli non può ammettere, dividendo ciò che è inseparabile: i fatti documentati nella memoria difensiva raccolta dai collaboratori di Joseph Ratzinger con il coordinamento dell’arcivescovo Georg Gänswein, suo segretario personale, e l’“errore” non intenzionale, la “svista” ammesso da Benedetto XVI e riferito ad un singolo episodio quando egli arcivescovo di Monaco e Frisinga, da una parte, e, dall’altra, l’espressione di “dolore” e “vergogna” e la richiesta di “perdono” alle vittime per il male commesso da sacerdoti della diocesi di cui era pastore. Come un padre che piange, è umiliato e domanda il perdono di coloro che hanno subito una gravissima ingiustizia ad opera di uno o più dei suoi figli senza che egli ne fosse portato a conoscenza, così Benedetto non esita a mettersi in ginocchio con loro e come loro, di fronte a Dio e alle vittime, con animo contrito ma con la libertà e nella verità della coscienza di non avere mentito né al Signore né agli uomini. La lettera dice solo “sì, sì” e “no, no”. “Il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). 

 

Roberto Colombo

membro ordinario della Pontificia accademia per la vita

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