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Chiesa del dissenso

Mezzo secolo fa nasceva  il “Movimento 7 novembre”. Una parabola veloce, ma non inutile

Giovanni Salmeri

Nato nei vortici del cattolicesimo del dissenso, dopo pochi anni si arrestò senza lasciare sensibili tracce. Alcune sue iniziative, rilette oggi, sono da rivalutare e mostrano problemi ancora oggi aperti

Il calendario segna il cinquantesimo anniversario del movimento che scelse come nome “7 novembre 1971”. C’è da dubitare che qualcuno possa celebrare la ricorrenza. Del resto la storia di questo movimento non ha certo fatto molto per assicurare lunga memoria: nato nei vortici del cattolicesimo del dissenso, dopo pochi anni finì la sua parabola senza lasciare sensibili tracce. E ciononostante, se non altro perché le cause perdute hanno una loro attrattiva, non è inutile ricordarlo.

  

Il nome, anzitutto. Il 6 novembre 1971 si era conclusa la terza assemblea del Sinodo dei vescovi, che aveva come temi “il sacerdozio ministeriale e la giustizia nel mondo”. L’impressione che questa fosse stato un fallimento fu generale. Gli osservatori notarono la timidezza delle conclusioni: un giovane Sandro Magister intitolava per esempio il suo resoconto “La giustizia col bavaglio”; per quanto riguarda il sacerdozio, poi, l’esortazione finale non soddisfece nessuna delle attese che erano nell’aria; e inoltre, i due temi affrontati vennero percepiti come colpevolmente slegati (non esisteva forse un problema di giustizia nella Chiesa? per esempio dal punto di vista della gestione dei beni, o della partecipazione delle donne?).

 

Visto con gli occhi di oggi, il testo finale sulla giustizia nel mondo appare migliore di quanto sembrò ai contemporanei: alcuni passaggi sarebbero anzi coraggiosi pure se pronunciati oggi. Ma non questa fu l’impressione di coloro che avevano visto nel Concilio Vaticano II l’inizio di una traiettoria di rinnovamento che avrebbe dovuto liberare la Chiesa dalle sue modalità “sacrali, burocratiche e di potere mondano”, e ciò proprio nel momento in cui nella società nascevano “forze di liberazione che sono essenzialmente evangeliche, perché fondate sul riconoscimento dell’uomo come valore supremo ed unico riferimento per l’edificazione della società civile”. La scristianizzazione dilagante e l’evidente crisi della Chiesa sarebbero solo la conseguenza inevitabile di uno scollamento in cui, paradossalmente, il mondo sta diventando più cristiano della Chiesa stessa. Citando Teilhard de Chardin, “una religione giudicata inferiore al nostro ideale di uomini, per quanti miracoli vanti, è una religione perduta”.

 

Il “Movimento 7 novembre”, cui aderirono subito un paio di centinaia di preti e laici, intendeva quindi portare avanti, dal giorno dopo, il discorso mancato dal Sinodo: ciò che si intendeva mettere in gioco era la presenza del Vangelo nel mondo. La migliore testa pensante del movimento era probabilmente il gesuita Pietro Brugnoli: brillante docente di spiritualità dei laici all’Università Gregoriana, autore di libri ancor oggi eccellenti testimonianze della teologia del laicato, contribuì sostanzialmente all’orientamento del Movimento, ma pagò la sua adesione con la fine della carriera universitaria (e più tardi con la sua dimissione dalla Compagnia di Gesù e un ingiustissimo totale oblio). Uno dei suoi libri migliori, pubblicato qualche anno dopo con un buffo “imprimatur anche se non siamo d’accordo”, portava il titolo: Primo: il Vangelo. La domanda sottesa era: possibile che nella Chiesa oggi si parli di tutto, fuorché appunto dell’unica cosa indispensabile?

  

Con il senno di poi è facile vedere la velleità di quella stagione del dissenso cattolico. In più, bisogna ammettere che molte ambiguità nella celebrata centralità dell’uomo potevano esser riconosciute anche con il senno di prima (per esempio se ci si chiamava Pier Paolo Pasolini). Ma rileggere le testimonianze di quell’epoca mostra tanti problemi ancora oggi aperti: e tra questi quello, essenziale, di che cosa mai significhi integralmente (e quindi anche umanamente) il Vangelo, in un mondo in cui le persone appaiono sempre meno interessate alle parole della Chiesa, tanto più quando hanno l’impressione che queste parole cerchino un accreditamento rincorrendo, e con ritardo, ciò che il mondo già tranquillamente sa per conto suo.

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