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“In Germania non ci sono più preti”

Matteo Matzuzzi

Lo stato catastrofico della chiesa tedesca, capofila del riformismo ma sempre più divisa

Roma. “Dobbiamo usare l’immaginazione”, diceva un paio d’anni fa il cardinale Reinhard Marx, gran capo dei vescovi tedeschi, arcivescovo di Monaco e leader del Consiglio vaticano per l’economia, parlando a proposito delle strategie da adottare per accogliere nella madre chiesa coloro che stavano fuori, a suo dire “respinti” perché impossibilitati ad accedere al sacramento dell’eucaristia. Erano i mesi della grande battaglia sinodale sulla comunione da concedere (o no) ai divorziati risposati, con la drammatica spaccatura tra i padri convocati a Roma dal Papa nell’assise che si concluse con un generico via libera seppure meditato e comunque sottoposto a una valutazione “caso per caso”. A prevalere, allora, fu proprio la soluzione tedesca concepita da Christoph Schönborn, un testo di livello teologico sublime come solo i dotti di Germania e Austria sanno fare. Secondo George Weigel, il motivo della lotta contro le rigidità legaliste romane aveva ben poco a che fare con la misericordia divina, però: “Dieci mesi prima del Sinodo, avevo chiesto a un ben informato osservatore delle questioni cattoliche tedesche perché i vertici del cattolicesimo di Germania insistessero nel voler riformare la questione della santa comunione in riferimento a coloro che si sono risposati civilmente in seconde nozze. Come risposta, ho ottenuto una sola parola: soldi”. Più gente resta nel recinto di santa madre chiesa e più gente paga la Kirchensteuer, la tassa obbligatoria per chiunque si faccia battezzare. Una gabella che nei decenni ha alimentato a dismisura i forzieri della chiesa tedesca: nel 2015 il patrimonio della diocesi di Colonia ammontava a tre miliardi di euro, “una cifra oscenamente elevata”, scrisse indignato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung Daniel Deckers, biografo del da poco defunto cardinale Karl Lehmann, per vent’anni indiscusso numero uno dei vescovi di Germania e capofila del progressismo tedesco.

 

Ma le battaglie per aprire le porte delle chiese ai lontani espellendone i cosiddetti farisei – che poi sono quelli che il Papa bolla genericamente come “ideologici” nella sua predicazione avversa ai piantatori di paletti attorno all’ospedale da campo – hanno dato ben poco frutto. “Die Priester sterben aus”, “i preti scompaiono”, ha scritto sul numero di maggio dello Stimmen der Zeit il gesuita Stefan Kiechle. La sua è un’analisi sullo stato della chiesa tedesca, la cui rappresentazione dà l’idea di un enorme moloch avviato sulla strada dell’implosione. Una morte per cause naturali, si direbbe, stando alla lettura delle cifre, asettiche e per questo testimoni più affidabili della gravità della situazione. Quest’anno, nelle ventisette diocesi del paese, saranno ordinati solo 61 sacerdoti. Erano 74 nel 2017 e 58 nel 2015 (punto più basso mai toccato). Nel 1995, poco più di vent’anni fa, il numero si attestò a 186. I sacerdoti attivi sono oggi 13.856, dei quali solo 8.786 “in servizio”. Solo tre anni fa erano 14.087. In quindici-vent’anni, ne rimarranno pochissimi. Il problema è – aggiunge padre Kiechle – che nessuno sembra pensarci. Si va avanti come si può, con accorpamenti di strutture, messa in vendita di chiese e chiusura di spazi comunitari. La diocesi di Treviri, lo scorso anno, ha deciso di passare da 863 parrocchie a 36. A Saarbrücken ci sarà solo una parrocchia per centomila abitanti, con un parroco e qualche vicario. Thomas Sternberg, presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi – organismo che da tempo più spinge per riforme e aperture – ha detto alla Welt am Sonntag che la situazione è “drammatica” e le ripercussioni saranno “catastrofiche”. Non ci saranno più preti.

 

Il numero delle celebrazioni domenicali, già ridotto da tempo, “è crollato oltre la soglia del dolore”. Toni da Requiem, insomma. Ancora più lugubri se si tiene conto delle “uscite” dalla chiesa cattolica, cioè del numero di quanti dichiarano di non far parte più di quella comunità e così non pagano più – tra le altre cose – la tassa. Nel 2015 gli abbandoni sono stati 182 mila, nel 2016 è andata un po’ meglio, ma l’emorragia è continuata: nella sola diocesi di Essen (2 milioni di cattolici, pari al 32 per cento dell’intera popolazione), a “uscire” sono stati in quattromila. E proprio a Essen hanno deciso di indagare le ragioni che spingono tanti battezzati a sottoscrivere il formale atto di abbandono della chiesa cattolica. Lo scorso anno, con apprezzabile rigore teutonico, è stato proposto a tutti gli interessati un questionario, aperto anche a chi invece ha deciso di restare fedele. Le risposte sono state quelle attese: perché si abbandona? “Per mancanza di legame con la chiesa, per la Kirchensteuer, per l’atteggiamento della chiesa non più in linea con i tempi, per le idee della chiesa sulla donna e il celibato, per la discordanza sulle posizioni etiche”. Una persona che ha risposto, riferiva il sito Settimananews (Dehoniane), diceva di non poter “accettare la posizione della chiesa sugli omosessuali, sulla contraccezione e sul celibato”. Un altro: “La chiesa è estranea al mondo e non è mai stata in linea con lo spirito dei tempi”. Le risposte, spiegava la diocesi di Essen, serviranno per implementare uno dei tanti “piani per il futuro” sperimentati negli ultimi decenni con cui si tenterà di mettere una toppa sul buco, anche svuotare la barca che fa acqua con un cucchiaino da tè è un’operazione che appare ai limiti della disperazione. Per rendere attrattiva la proposta cristiana (e cattolica in questo caso) si è tentato di giocare la carta della misericordia e di usare a mo’ di testimonial, addirittura il Papa: entrate tutti, porte aperte anzi spalancate. La strada scelta in precedenza, nel 2012, non aveva sortito grandi risultati. Sei anni fa i vescovi avevano infatti fatto presente ai cattolici tedeschi che “la dichiarazione di abbandono della chiesa davanti a funzionari dell’anagrafe civile è un atto pubblico di volontaria e intenzionale presa di distanza che costituisce grave colpa verso la comunità ecclesiastica”. E si avvertivano i potenziali apostati che neanche l’unzione degli infermi sarebbe stata garantita in caso di abbandono. Insomma: o pagate il fio, o Caina v’attende. La soluzione più a portata di mano – se non altro perché se ne discute da tempo – consiste nell’ordinare sacerdoti anziani uomini sposati: i viri probati. Lo stesso prefetto della congregazione per il Clero, il cardinale Beniamino Stella, intervistato dal giornalista Fabio Marchese Ragona per il libro Tutti gli uomini di Francesco (San Paolo) confermava che il tema è all’ordine del giorno, benché si tratti di una questione delicata e ad alto rischio di strumentalizzazione ideologica. Non si tratterebbe, in ogni caso, di rendere opzionale il celibato né di copiare la prassi ortodossa, che permette l’ordinazione sacerdotale di giovani con moglie a carico. Di viri probati, però, si parla soprattutto per le sperdute lande dell’Amazzonia, dove intere comunità riescono a vedere un prete una o due volte all’anno, con tutto quel che ne consegue rispetto all’accostamento ai sacramenti. Nessuno aveva pensato a tale soluzione per un bastione della chiesa cattolica a due passi da Roma, la ricca e potente Germania.

 

La Germania non è l’Olanda

Alla fine del 2014, in un articolo sulla Faz, il saggista Markus Günther scriveva che la chiesa tedesca è del tutto simile alla Germania dell’est nei suoi ultimi giorni di vita: “Sembra stabile, ma in realtà è sull’orlo del collasso. Pastori e vescovi, ma anche molti laici attivamente impegnati, vedono paesaggi in fiore dove in realtà non c’è nulla, se non il deserto. L’amore, come si dice, è cieco”. La chiesa tedesca segue dunque la stessa china delle altre chiese dell’Europa centrale e settentrionale, alle prese con una crisi di fedeli e vocazioni dalle proporzioni ormai drammatiche. Mettere sullo stesso piano, però, la Germania con l’Olanda o con la Repubblica ceca sarebbe fuorviante: il peso storico, economico e sociale della realtà tedesca regge il confronto solo con “potenze” di pari grado, Francia o Stati Uniti, per citarne due. E nonostante il gregge sempre meno numeroso, le crepe tra i vescovi locali diventano sempre più larghe. Se una prima divisione s’era vista sul tema della comunione ai divorziati risposati, è sulla “intercomunione”, ossia il permesso di accedere all’eucaristia ai protestanti sposati con cattolici, che la spaccatura s’è acuita, tanto da arrivare fino a Roma, al cospetto del Papa. Lo scorso febbraio, infatti, la Conferenza episcopale guidata dal cardinale Marx aveva annunciato la pubblicazione di un sussidio per i sacerdoti chiamati a “esaminare le situazioni concrete per giungere a una decisione responsabile riguardo alla possibilità per il coniuge non cattolico di accedere alla comunione”. Qualche settimana dopo, la ribellione di sette vescovi tedeschi – tra cui il cardinale di Colonia, Rainer Maria Woelki –, che in una lettera inviata al prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer, e al presidente del pontificio consiglio per l’Unità dei cristiani, il cardinale Kurt Koch, chiedevano urgenti “chiarimenti” poiché a loro giudizio il documento promosso da Marx è “illegale e vìola la fede cattolica e l’unità della chiesa”. Qualche giorno fa, il responso del Papa: “Trovate un risultato possibilmente unanime”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.