Quando la celebrazione della messa diventa una questione di contabilità
Il parroco del Veneziano che ha sospeso la celebrazione per mancanza di fedeli e le parole di Gesù: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”
Roma. Magari il patriarca Francesco Moraglia quel cartello non l’avrebbe appeso sul portale della chiesa, ma tutto sommato la decisione di don Mario Sgorlon, il parroco che ha deciso di sospendere le messe nella chiesa delle Vignole per mancanza di fedeli, è ritenuta “comprensibile”. Dal patriarcato di Venezia spiegano al Foglio che “la situazione è originalissima”, essendo il luogo in questione periferico e abitato da poche decine di persone per lo più in età avanzata. E infatti, nella motivazione che ha portato già dallo scorso inverno il sacerdote a decidere di celebrare solo su richiesta di un congruo numero di fedeli (da quantificare, a quanto pare) c’è l’esiguo numero di partecipanti al rito. “Diciamo che riesco a officiare il rito circa una volta al mese. D’inverno, soprattutto, non viene nessuno perché fa freddo ed è umido, la gente si ammala e non esce di casa: una volta ci siamo trovati in tre. Insomma, celebrare così non ha senso”. E’ questo, semmai, il passaggio che stona: il senso di celebrare la messa con “poco” pubblico, quasi fosse una mera questione contabile. E poi, “tre” significa che qualcuno, volenteroso anche se anziano o ammalato, in chiesa c’era. E tanto basta, anche perché dopotutto, “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20), diceva Gesù, se può servire al caso di specie.
Don Mario dice di non capire il clamore suscitato dalla vicenda, anche perché quel cartello è affisso da mesi e i residenti concordano con la scelta di ridurre al minimo la frequenza delle liturgie domenicali date le condizioni particolari (“originalissime”, appunto) della parrocchia. “A richiesta”, si fa sapere poi, le celebrazioni saranno ripristinate, magari in estate, quando le orde di turisti che calano su Venezia potrebbero rimpinguare le presenze sui banchi dei luoghi di culto cattolici, benché i precedenti – a detta di don Sgorlon – non inducano a essere ottimisti. “Sono qui a fare il parroco da oltre quindici anni e non era mai successo che fossi costretto a chiudere, ma così vanno i tempi. Non ci si può fare niente. Quando i fedeli torneranno, io sarò qui ad aspettarli”, ha sottolineato. Non è neanche un problema di troppe parrocchie da amministrare e di messe da far saltare per carenza di clero, come pure da tante altre parti d’Italia accade da tempo. Qui manca la folla. “Non ci vedo niente di strano, è il destino di tutte le piccole località”, sospira in tono un po’ inquietate don Mario, che dà l’idea di considerare ormai perso il recinto, con le pecore scappate e non più raggiungibili. Una resa, insomma, davanti a “questi tempi” in cui le folle non bussano alle porte delle chiese e quel senso religioso così vivo nell’Italia di qualche decennio fa è assai sbiadito. Non è valso neppure il laicissimo esempio di Giovanni Mongiano, l’attore sessantacinquenne che qualche settimana fa decise di andare in scena al Teatro del Popolo di Gallarate nonostante in sala non ci fosse nessuno. Glielo avevano detto, con imbarazzo, e alla fine l’unico spettatore era la cassiera del teatro. Un’ora e venti di monologo, senza saltare neppure una battuta. E non è valsa neanche la lezione di vita di padre Ernest Simoni, il prete albanese creato cardinale da Francesco che ha passato gran parte della vita in carcere e ai lavori forzati durante la dittatura di Hoxa: “Celebravo la messa tutti i giorni, a memoria, in latino, sfruttando ciò che avevo a disposizione. L’ostia la cuocevo di nascosto su piccoli fornelli a petrolio che servivano per il lavoro. Se non potevo utilizzare il fornello, mettevo da parte un po’ di legna secca e accendevo il fuoco. Il vino lo sostituivo con il succo dei chicchi d’uva che spremevo”.
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