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Solo la nazione cristiana può integrare l'islam

Le cinque masse spirituali dell’occidente: tra la calma e l’equilibrio della chiesa cattolica e l’ideologia dei diritti umani. Perché garantire diritti individuali e proclamare la laicità non salverà un luogo vuoto. Anteprima di un saggio dell’accademico francese Pierre Manent.

Anticipiamo alcuni stralci di un intervento pubblicato sul numero in uscita della Rivista di Politica, diretta da Alessandro Campi ed edita da Rubbettino, con un dossier speciale intitolato “Il malessere della Francia tra politica, storia e memoria”.
Manent è stato cofondatore della rivista Commentaire, animatore del Centre Raymond Aron in boulevard Raspail e autore di saggi chiave sul liberalismo.

 


 

 

Un dispositivo teologico-politico soggiace ai disordini presenti. Esso è definito dal rapporto dinamico che intrattengono le grandi masse spirituali dell’Occidente. La costituzione interna di queste ultime e le loro forze motrici sono di una prodigio- sa complessità, ma la relazione reciproca tra quelle masse presenta dei tratti molto semplici, o quanto meno, considerata nella prospettiva pertinente per il nostro discorso, quella relazione reciproca presenta dei tratti di una incoraggiante semplicità. Direi le cose in questo modo. Le cinque grandi masse spirituali che determinano la figura dell’occidente sono l’ebraismo, l’islam, il protestantesimo evangelico principalmente americano, la chiesa cattolica, infine l’ideologia dei diritti umani. Ebbene, mi sembra che ciò che, in questo dispositivo, caratterizza e distingue la Chiesa cattolica è, se posso dire, la sua calma e il suo equilibrio. Le altre forze spirituali sono impegnate, a gradi diversi e per ragioni ogni volta specifiche, in un movimento di autoaf- fermazione che è ampiamente indifferente alle vedute e agli auspici del resto dell’umanità. Vogliono conoscere solo i propri diritti e le proprie ragioni. La Chiesa cattolica è la sola forza spirituale impegnata in un approccio che prende in conto deliberatamente e per così dire tematicamente le rivendicazioni e le vedute delle altre. E’ in modo eminente il caso del suo rapporto con l’ebraismo. La chiesa cattolica ha non soltanto condotto un esame di coscienza molto approfondito sulla sua responsabilità nell’antiebraismo e nell’antisemitismo, ma ha anche riconsiderato in profondità la sua relazione al popolo ebraico. Essa comprende che la sua pretesa di essere il vero ed esclusivo Israele non solo ledeva il popolo ebraico, ma oscurava anche il senso e la dinamica dell’Alleanza. Senza nulla abbandonare della confessione di fede che le è propria e la definisce, essa ammette che il suo ruolo eminente e singolare nella comu- nicazione della verità non implica che resterebbe a Israele solo la parte della cecità e della durezza. In un certo senso, il rapporto della Chiesa all’ideologia dei diritti umani è l’elemento simmetrico del suo rapporto all’ebraismo. Per la dottrina democratica che prevale oggi, il cristianesimo non è che l’Antico Testamento del vero universalismo, quello contenuto nella dichiarazione dei diritti umani, una dichiarazione incessantemente estesa e perfezionata. La Chiesa si dibatte da più di due secoli con questa dottrina, con la sua posizione che conosce delle variazioni di grande ampiezza. Dopo averla condannata come una rivolta contro Dio, essa ha teso più recentemente a vedervi l’espressione di un movimento di liberazione umana che, in ciò che ha di essenzialmente legittimo, ha la sua fonte nel Vangelo. Non è questo il luogo per seguire la storia di quelle variazioni. Ciò che ci importa qui osservare è che la Chiesa è in un costante dibattito dialettico e morale con quella dottrina, che rappre- senta al contempo una derivazione della dottrina cristiana della coscienza, e una rottura con essa. Si è obbligati a notare che quest’apertura dialettica della chiesa non è ricambiata, poiché l’ideologia dei diritti umani ha assunto nell’ultimo periodo una virulenza che sembra specialmente diretta contro la forma di vita che la chiesa raccomanda, protegge e promuove. Quanto alla relazione della chiesa all’islam, posso fare questa considerazione. Anche se si devono lasciare da parte gli svolgimenti irenici e ignoranti di certi cattolici sull’islam “religione abramitica”, svolgimenti che divengono più rari via via che un minimo di conoscenza dell’islam si diffonde, resta che sono i cattolici a prendere il più delle volte l’iniziativa di quei “dialoghi” in cui si cerca non solo di facilitare la coesistenza tra cattolici e musulmani ma anche di dare un senso positivo alla pluralità religiosa. I pontefici stessi, e in particolare Giovanni Paolo II, sono andati il più lontano possibile nella proposta di una prospettiva comune ai cristiani e ai musulmani. C’è del resto, nel pensiero cattolico, una tradizione di prossimità mistica con l’islam, o di prossimità con l’islam mistico, riassunta dal nome di Massignon. In breve, allorché tutte le altre avanzano e pretendono, la chiesa cattolica sta dov’è, interroga e si interroga. (…)

 

Per riassumere in poche parole la proposta che i principali argomenti di questo saggio tendono a fondare, i musulmani francesi troveranno il loro posto nella società francese solo se lo trovano nella nazione. Lo troveranno nella nazione solo se quest’ultima li accoglie secondo la sua verità e secondo la loro verità – non dunque semplicemente come degli individui-cittadini titolari di diritti accolgono altri titolari degli stessi diritti, ma come un’associazione di marca cristiana accorda il suo posto a una forma di vita con cui essa non si era mai congiunta su un piede di parità. E’ proprio perché l’incontro tra queste due forme di vita è stato in generale così difficile e persino doloroso, e perché dunque le possibilità di una concittadinanza finalmente felice appaiono modeste a chiunque accetti di non sognare, che importa essere molto attenti alla situazione effettiva degli uni e degli altri, e molto sinceri gli uni e gli altri nella formazione e nella formulazione dei nostri desideri. Come ho detto, se i nostri concittadini musulmani devono evidentemente godere dei diritti dei cittadini francesi senza alcun tipo di discriminazione, e non è oggi sempre il caso, il loro posto in quanto gruppo resterà qualitativamente determinato dal dispositivo spirituale e politico che ho cercato di individuare. Non entrano in un luogo vuoto, devono trovare il loro posto in un mondo pieno. Coloro che li accolgono hanno in teoria le risorse spirituali e intellettuali per essere generosi senza essere compiacenti. Coloro che sono accolti devono aver voglia di partecipare attivamente alla vita di un corpo politico che non appartiene e non apparterrà alla umma; devono dunque accettare di separarsi in qualche misura dalla umma. Perché la nazione li accetti come musulmani senza ridurre la loro marca religiosa allo statuto di una particolarità privata che non interessa il corpo politico, occorre che essi accettino questa nazione come il luogo della loro attività civica e più in generale della loro educazione. Da entrambe le parti ciò non avverrà senza difficoltà. Una certa “comunitarizzazione” è inevitabile. Essa è persino auspicabile nella misura in cui previene la menzogna ideologica della nuova laicità che pretende di obbligarci a far finta di essere soltanto degli individui-cittadini. I musulmani formeranno inevitabilmente una comunità visibile e tangibile nella nazione francese, una comunità distinta nella nazione in cui sono dei cittadini come gli altri. Questa situazione sarà vivibile o durevole solo se i musulmani formano una siffatta comunità in una comunità inglobante che non è musulmana, ciascuno sapendolo. E’ forse il momento di mettere i puntini sulle i. La Repubblica in cui tutti i cittadini hanno eguali diritti è anche una nazione di marca cristiana in cui gli ebrei giocano un ruolo eminente. E’ in questa Repubblica che i musulmani possono godere dei loro diritti, ed è in questa nazione che devono trovare il loro posto. La Repubblica potrà essere tanto più intransigente nel garantire l’uguaglianza dei diritti quanto più la nazione sarà sicura di conservare la propria forma. E’ in verità un capolavoro d’immaginazione e di moderazione che è richiesto agli uni e agli altri di rea- lizzare. Non si sarebbe volontari per una simile impresa se si avesse la scelta. Non abbiamo la scelta. E’ troppo tardi per uscire da una situazione che deriva ben più dalla nostra irriflessione che dalle nostre decisioni ponderate. In ogni caso, se il nostro fallimento significherebbe lo smembramento della nazione e la fine ingloriosa di una lunga speranza, il successo risuonerebbe bel al di là degli stretti limiti del nostro paese poiché sarebbero implicate le principali forze spirituali dei mondi atlantico e mediterraneo. Ciò dovrebbe motivare il nostro desiderio di gloria, se ne abbiamo ancora.
L’islam è sorto in un’Europa che ha smantellato, o che ha lasciato rovinarsi, i suoi antichi parapetti. Parlando solo di radici, ma non osando più essere a casa loro, gli europei cercano il riposo nel movimento, in un movimento che nulla regola né rallenta. Nessuna frontiera deve ostacolare il libero movimento dei capitali, dei beni, dei servizi e delle persone, così come nessuna legge deve circoscrivere il diritto illimitato della particolarità individuale. Una vita senza legge in un mondo senza frontiere, è questo l’orizzonte degli europei da almeno una generazione. Un simile dispositivo sembrerebbe dover essere poco ospitale per l’islam che avanza in nome di una legge assoluta e divina. Di fatto, la sharia suscita molte apprensioni. Allo stesso tempo, grazie proprio al suo impianto definito dalla legge religiosa, anche l’islam ignora a suo modo le frontiere. Le frontiere dei due gruppi umani sono dunque egualmente indefinite. Come l’Islam non ha mai trovato una propria forma politica, così l’Europa intende abbandonare la forma politica che le era propria. In questo incontro di due insiemi privi di forma politica viene a risolversi la maledizione, o l’infermità, di essere nati da qualche parte.

 

Come sono giunti gli europei a odiare a questo punto l’autoctonia? I nazionalismi virulenti e tossici del Ventesimo secolo hanno certamente contribuito a questo sentimento molto generale e potente. Eppure la nazione compresa come la valorizzazione esclusiva della gente del posto e come l’avversione omicida per la gente d’altrove ha poco a che vedere con la forma politica in cui l’Europa si è costruita e in cui ha dispiegato le sue potenze materiali e spirituali. Come facciamo a confondere la comunità “del sangue e del suolo” con la nazione politica e la comunità spirituale? Noi pensiamo, sentiamo e spesso agiamo come se fossimo posti davanti all’alternativa tra l’autoctonia e lo sradicamento, e scegliamo ovviamente quest’ultimo sotto il nome di mondializzazione o di libera circolazione, per orrore dell’autoctonia völkisch. Manchiamo di immaginazione così come di memoria. Finché la nazione europea fu nella sua forza, finché preservò la sua integrità spirituale, gli europei ignorarono quell’alternativa. Non dovettero scegliere tra l’autoctonia e lo sradicamento. Ho già sottolineato l’originaria indeterminazione di questa forma politica inedita, così come l’enorme parte d’avventura che ha caratterizzato il suo sviluppo. Quell’avventura prodigiosamente libera e varia fu retta da due princìpi d’ordine e d’energia ugualmente potenti, e la cui collaborazione e moderazione reciproca diedero all’invenzione europea la lunghezza d’arco e la ricchezza di sfumature che nulla eguaglia nella storia. Quei due princìpi sono, da una parte, la fiducia nelle proprie forze, l’ardore e la fierezza pagani se si vuole, dall’altro, la fiducia nella benevolenza inesauribile e insospettabile di Dio, una benevolenza prodigata a tutti e a ciascuno, e una fiducia che è propria alla fede cristiana. L’Europa fu grande attraverso le sue nazioni finché seppe combinare le virtù romane, coraggio e prudenza, con la fede in un Dio amico di tutte e di ciascuna. Ognuna voleva al contempo “acquistare il mondo”, nelle parole di Machiavelli, e restare degna della benevolenza del Dio imparziale. Ciò non avvenne ovviamente senza innumerevoli miserie, crudeltà e disastri, che le nostre anime esangui non si stancano di inventariare. Chi però fa lo sforzo di proporzionarsi all’immenso arco storico così percorso dalle nazioni europee apre la sua anima a un’ampiezza, altezza e profondità dell’impresa umana che gli fanno indovinare per contrasto come quell’arco si è spezzato. Il crollo nell’immanenza violenta che caratterizza il Ventesimo secolo deriva dall’indebolimento della mediazione cristiana, quando le nazioni, soprattutto le più giovani e potenti, e specialmente la più giovane e potente la cui marca cristiana era del resto profondamente offuscata dalla dualità delle confessioni, pretesero essere un’espressione immediata dell’umanità stessa e ciascuna la sua espressione eminente e presto esclusiva. Rifiutando di inserire la loro libertà in un ordine spirituale da ultimo rimesso alla potenza e alla bontà di Dio, cercarono sempre più lontano dal cielo comune il segreto di un’elezione singolare che esse non si degnavano ormai di ricevere e condividere. Non ripareremo la rottura dell’arco europeo. Non riprenderemo la lunga frase dove si è interrotta quasi esattamente un secolo fa. Non vi è nemmeno alcun avvenire nella così mal chiamata “costruzione europea”, perché non vi è nessuna architettura né nulla di europeo su questa pianura immensa e vuota in cui tanti “simili” non riescono a produrre nulla di comune. Non siamo tuttavia privi di risorse, antiche e nuove. In un certo senso, abbiamo un imbarazzo di ricchezze che non sappiamo come ordinare. Sono le diverse forze spirituali che ho cercato di mettere in rapporto in questo saggio, senza perder di vista, almeno spero, la grande indeterminazione del nostro paesaggio morale e politico. Solo un legislatore o un profeta, o un profeta legislatore, oserebbe proporre una messa in ordine positiva di quelle forze. Per quanto mi riguarda, azzarderò per concludere un’ultima considerazione. Non vi è avvenire per gli europei né nell’autoctonia, anche se bisogna pur nascere da qualche parte, né nello sradicamento, anche se, come diceva Montesquieu, la comunicazione dei popoli produce “grandi beni”. Ci siamo rinchiusi in questa mortifera alternativa perché ci siamo insediati nell’immanenza come nel vero luogo dell’umanità. Se non siamo altro che dei vegetali terrestri, abbiamo in effetti solo la scelta tra l’essere radicati e l’essere sradicati. La storia d’Europa, tuttavia, è inintelligibile se non si fa intervenire una nozione completamente diversa, una nozione elaborata dall’antico Israele, riconfigurata dal cristianesimo e perduta quando l’arco europeo si è spezzato. Quella nozione, senza la quale la storia d’Europa è inintelligibile, è divenuta essa stessa inintelligibile agli europei d’oggi. Ai loro occhi essa è semplicemente contraria o estranea alla ragione. Chi la menziona esce per quella stessa menzione dal campo della comunicazione razionale e per così dire dalla democrazia stessa. Intendo ovviamente parlare dell’Alleanza. Non è una nozione semplicemente razionale, è vero, ma non è nemmeno esattamente un dogma religioso. Si tratta di un certo modo di comprendere l’azione umana nel mondo o nel Tutto, di comprendere al contempo la sua grandezza e la sua precarietà. “Dio” è qui colui che dà la vittoria ma anche che castiga la dismisura, colui che conferisce in generale alle azioni quel supplemento di bene che le rende veramente buone e impedisce che le cattive vadano fino in fondo al male di cui sono portatrici. In breve, per quanto grande l’uomo possa essere nella sua fierezza di libero agente, la sua azione si inscrive in un ordine del bene che non produce e dalla cui grazia egli da ultimo dipende. E’ nella relazione stretta tra Dio e il suo popolo nell’antico Israele che la nozione di Alleanza ha trovato il suo tipo. Diciamo soltanto per il nostro soggetto che l’Alleanza apre una storia alla libertà, che essa autorizza e per così dire motiva le più grandi imprese umane inscrivendo al contempo queste ultime in una relazione in cui l’umanità si riunisce per provarsi, conoscersi e accettare di essere giudicata. Ho sottolineato quanto una parte importante dell’ebraismo contemporaneo consideri questa nozione con diffidenza. Dov’è Dio?, dice il compagno d’Elie Wiesel a Auschwitz. Movimento dell’anima naturale e per così dire irresistibile. Tuttavia, se si resta sotto il potere assoluto di quella esperienza, è l’azione umana come tale che tende a divenire essenzialmente criminale. L’umanità, specialmente l’Europa, è riunita sotto la Condanna. L’islam, da parte sua, non sa come inserirsi in un mondo morale che gli sfugge doppiamente: da un lato, la sua relazione a Dio ignora l’Alleanza, essendo tutta d’obbedienza; dall’altro, non avendo preso parte alla distruzione degli ebrei d’Europa, i musulmani non potrebbero essere molto sensibili al dramma infinitamente straziante che si gioca tra l’Europa e il popolo ebraico. Se l’Alleanza è stata o meno abrogata, questa questione non potrebbe aver un senso per loro, e non è imponendo loro di partecipare a un processo in cui non hanno un posto che si riuniranno le comunità spirituali che compongono la vita europea. Spetta ai cristiani ridare senso e credito all’Alleanza. Non lo faranno rivolgendo degli argomenti teologici a Israele né convocando l’islam in una vaga confraternita dei figli di Abramo. I cristiani ridaranno senso e credito all’Alleanza solo ridando senso e credito all’associazione umana che ha portato l’Alleanza fino alla rottura dell’arco europeo, vale a dire la nazione. Allorché il popolo ebraico ha assunto forma nazionale in Israele, le nazioni dell’Europa cristiana non potrebbero rompere con la forma nazionale senza portare un colpo fatale alla legittimità d’Israele. Allorché i muri del mondo arabo-musulmano crollano e i musulmani sembrano faticare sempre di più a produrre una forma politica a partire da se stessi, accoglierli, o piuttosto abbandonarli, in un’Europa senza forma né bene comune significherebbe toglier loro la migliore possibilità di una vita civica. L’avvenire della nazione di marca cristiana è una posta in gioco che ci riunisce tutti.

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