Massimo Ciancimino (foto LaPresse)

Di Matteo e la distinzione tra le menzogne e i fatti raccontati da Ciancimino Jr

Massimo Bordin

Il problema vero del processo sulla presunta trattativa è la lettura complessiva della vicenda, la sua più che discutibile interpretazione

Era inevitabile che, tirando le somme del processo sulla cosiddetta trattativa, i pm dovessero affrontare il problema di Massimo Ciancimino. Un teste importante, privilegiato, come lo ha definito ieri in aula il dottore Antonino Di Matteo. Il teste chiave del processo, come lo definì Marco Travaglio, ma anche l’imputato di calunnia, reato che ancor meno di altri si addice a un teste chiave dell’accusa, che peraltro ha iniziato il processo da libero e lo conclude in stato di detenzione. Non era inevitabile ma è logica la linea seguita dal dottore Di Matteo nel tentativo di valorizzarne l’apporto, assolutamente indispensabile per l’accusa. Il suo contributo va vivisezionato e valutato con approccio laico, ha detto il pm alla corte d’Assise. In parole povere si tratta, secondo l’accusa, di dividere, nel fiume delle deposizioni del singolare personaggio, le palesi menzogne dai fatti riscontrati. Una operazione tecnicamente possibile secondo la giurisprudenza della Cassazione. Nel caso di questo processo però, più che mai, un fatto acclarato può avere più di una interpretazione possibile e ancor più opinabile risulta la concatenazione fra i vari fatti. La vivisezione finirebbe per mettere in secondo piano quella lettura complessiva della vicenda che Ciancimino Jr. è andato proponendo, inzeppandola di menzogne e prove contraffatte che comunque non sono il problema principale del processo. Il problema vero è la lettura complessiva della vicenda, la sua più che discutibile interpretazione, che non è farina del sacco di Ciancimino ma dei magistrati che hanno condotto l’inchiesta, ai quali Ciancimino si è affidato dando il contributo che ha saputo e potuto dare.