Il processo di Palermo sia da monito

Massimo Bordin
Il processo sulla trattativa va avanti e recentemente si sono ascoltati gli agenti di custodia che avevano raccolto le confidenze di Totò Riina nel breve percorso fra la stanza dove segue in videoconferenza le udienze e la sua cella.

Il processo sulla trattativa va avanti e recentemente si sono ascoltati gli agenti di custodia che avevano raccolto le confidenze di Totò Riina nel breve percorso fra la stanza dove segue in videoconferenza le udienze e la sua cella. Nulla di significativo. Riina sostiene che le stragi le hanno fatte i servizi segreti ma converrete che il suo è un parere interessato. Eppure il trascinarsi nel vuoto di questo processo in realtà ne svela la ragione profonda, che non è tanto la sentenza, che molti danno ormai per scontata, né la possibilità di clamorose rivelazioni che dopo tre anni di dibattito nessuno aspetta più. Il processo di Palermo, la sua stessa esistenza, deve costituire un monito, una sorta di spada di Damocle non solo per gli imputati. La minaccia che si sostanzia  in un processo del genere sta nella possibilità di sanzionare penalmente  una sensibilità diversa su temi di competenza giudiziaria.

 

Come aveva notato Eugenio Scalfari già quattro anni fa, si supera con l’inchiesta sulla “trattativa” la polemica sulla gestione della emergenza giudiziaria, rubricandola come reato penale. Idea che, notava Scalfari, non era venuta in mente nemmeno ai più intransigenti sostenitori del “partito della fermezza” ai tempi del terrorismo. E siccome l’arbitrio di una operazione del genere è evidente, può ben fondarsi su affermazioni nemmeno effettivamente pronunciate come è appunto il caso di questo processo. Ne tenga conto Gennaro Migliore.   

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