Foto di Jonathan Borba, via Unsplash 

Il dibattito

I bambini venduti e il corpo come forno. Altre idee sulla maternità surrogata

Nicoletta Tiliacos

L’utero in affitto è la programmazione di un abbandono dietro compenso e lauta percentuale per i mediatori. Una risposta a Michele Masneri

Caro Michele Masneri, ho letto con attenzione la tua risposta sul Foglio di ieri e constato che vieni al discorso mio, come diciamo nell’Urbe. Se un bambino non si può vendere, non è solo per i motivi per cui non si possono vendere organi e sangue, ma perché gli esseri umani non sono merci e/o servizi. Il grande biochimico Erwin Chargaff, esule in America per sfuggire alle leggi razziali e pioniere degli studi che hanno portato al sequenziamento del Dna (non propriamente un oscurantista, insomma), scrisse nel 1986 su Nature che vedeva con preoccupazione la futura “produzione semi-industriale di esseri umani”. Eccoci qua.

Parli di balie. Ti raccomando il bel documentario Rai di Ugo Gregoretti tra le balie ciociare, era il 1961 e la pratica ancora diffusa. Le donne pativano nel dover lasciare i figli per allattare quelli altrui, e a volte, tornate al paese, qualcuna scopriva che il proprio bambino nel frattempo era morto. Un mio zio chiamava mamma la propria balia, nella cui casa fu direttamente trasferito, e soffrì orrendamente quando fu riconsegnato, verso i due anni, alla madre vera, cosa che non gli impedì poi di voler bene per sempre a lei, alla balia e al fratello di latte. Ma quel crudele mondo antico, con tutti i disordini e le sofferenze e le complicazioni del caso, non esigeva la cancellazione di nessuno, andare a balia non significava eliminazione della madre, o viceversa. Obiettivo invece perseguito, a suon di contratti e clausole pignolissime, nel Mondo Nuovo dell’utero in affitto (in attesa di quello artificiale, dopo di che saremo tutti finalmente figli di nessuno). 

Ho parlato di orfanaggine dei nati da quella pratica, ma non perché non possano crescere benissimo. Sono amati, lo so per conoscenza personale, come e perfino di più di molti nati per vie ordinarie, con prove di ammirevole dedizione genitoriale e riuscite ottime e certificate. Mi riferivo a qualcosa che i figli della maternità surrogata non potranno avere: il passaggio alla vita extrauterina contando sul calore del corpo di chi li ha fatti nascere e la piena verità sulle proprie origini. Vale anche per gli abbandonati e adottati, ai quali, peraltro, leggi universali ora riconoscono il diritto di accedere alle informazioni sulla loro nascita.

È il motivo per cui l’Unione europea condanna la pratica della ruota, da un decennio ripristinata anche in Italia in forma tecnologica, con baby box e culle girevoli riscaldate. Ma se l’abbandono di un figlio alla nascita, diritto di ogni donna, è un tragico fallimento a cui porre rimedio, l’utero in affitto è la programmazione di un abbandono dietro compenso e lauta percentuale per i mediatori. A questo proposito, l’avvocato Anna Maria Bernardini de Pace, da te citata, sa bene che, se la prostituzione non è reato per chi la pratica, lo è sicuramente per chi la organizza e ne trae lucro. Il reato si chiama “istigazione alla prostituzione”. Tornando al parallelo con la surrogata: gli esseri umani non possono essere comprati e venduti, e allora niente cataloghi, fattorie, fiere, avvocati, contratti, anticipi e saldi alla consegna: l’utero in affitto è reato quasi ovunque nel mondo e perfino in quarantadue stati americani su cinquanta. 

Concedimi, caro Michele, un’ultima nota di colore: l’idea della gravidanza come “cottura” del bambino e della pancia della madre come forno (cfr il vituperato Tajani) è tipica di molte culture tradizionali, come fu largamente spiegato e documentato, per esempio, dall’antropologa Françoise Heritier, erede della cattedra di Claude Lévi-Strauss al Collège de France. E una madre “portatrice” americana, Mandy Storer, intervistata nel 2016 per il Corriere della Sera-la27 ora da Monica Ricci Sargentini, spiegava che “i bambini non sono miei ma dei loro genitori, sono loro che ci mettono gli ingredienti, io faccio il forno”. Qui si fa solo notare che quell’idea non proprio illuminata nasce, nelle culture patriarcali con strascichi nell’ipertecnologico Mondo Nuovo, dalla scarsa o nulla considerazione dell’apporto materno, visto come ancillare rispetto al potere creativo maschile. Tutte cose, lo confessiamo, che con questa nostra battaglia femminista di retroguardia si vorrebbero confutare. 

Ricambio con il solito affetto, caro Michele, i baci gattopardeschi.

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