Bentistà

È ora di ripensare gli spazi, i tempi e la vita delle città perché tornino a essere luogo di libertà

Il combinato disposto da elezioni amministrative e necessità di diffondere lo smart working apre finalmente un dibattito che da molto tempo doveva essere affrontato

Marco Bentivogli

Le città hanno rappresentato il luogo delle opportunità, occasione di conquista di libertà. In che misura lo sono ancora? Come difendere l’organizzazione, la mobilità, i tempi delle metropoli di oggi?

    Con qualche fatica stiamo riuscendo a capire in modo diffuso che la grande trasformazione digitale sta scongelando i due pilastri del lavoro: il tempo (orari) e lo spazio (i luoghi). Come si può pensare di lasciare immutato il territorio, le città di fronte a questi cambiamenti epocali? Come si fa a non considerare sbagliato il disequilibrio di una città se genera la propria economia con un pendolarismo inutile che la intasa, la sovraccarica, la inquina?


    Il servo della gleba non poteva allontanarsi dalla terra che coltivava, né essere allontanato. Da qui è nato il detto tedesco “StadtLuft macht frei”, cioè “l’aria della città rende liberi”. Libertà che come ci ricorda Giuseppe Lupo nei suoi libri, era molto compressa anche nella nostra mitica civiltà contadina. Le città hanno rappresentato nei grandi processi di inurbamento il luogo delle opportunità, queste ultime come occasione di conquista di libertà. In che misura lo sono ancora?


    I numeri delle città: pur occupando, com’è noto, meno del 4 per cento della superficie della Terra, ospitano oltre il 50 per cento della popolazione mondiale e consumano il 75 per cento dell’energia, rilasciando all’incirca il 70 per cento delle emissioni nocive. Inoltre, secondo il McKinsey Global Institute, le prime 600 città del mondo, con poco più del 20 per cento della popolazione, producono più del 50 per cento del pil. E’ chiaro che giocano un ruolo centrale quando si parla del nostro futuro. Le metropoli che crescono sono sempre più lontane dall’Europa e più le città crescono senza una visione e più le disuguaglianze aumentano al loro interno e, ancor di più, tra le aree urbane e quelle rurali. Pensate che tra le zone più ricche e le più povere di San Paolo, in Brasile, ci sono 25 anni di speranza di vita di differenza.

     
    Non a questi livelli ma ovunque le città necessitano di un grande ripensamento. Il combinato disposto da elezioni amministrative e necessità di diffondere lo smart working apre finalmente un dibattito che da molto tempo doveva essere affrontato. C’è chi teorizza l’idea che il digitale porterà al superamento delle città. Ci sono elementi che vanno a sostegno di questa tesi e altri che invece vanno contro. Più di tutto, serve qualche riflessione forse meno futuribile ma utile, nell’immediato, su come ripensare gli spazi, i tempi e la vita delle città. 

     
    Prima ancora di occuparsi degli esercizi commerciali e dei taxi nel centro storico, bisogna ricordarsi che le loro difficoltà per lo smart working e il lockdown sono state precedute da situazioni ancora più dirompenti nelle periferie e nelle aree interne dove quegli stessi servizi sono diventati inutili per il pendolarismo quotidiano che spopola in intere aree da anni.

     
    La rigenerazione urbana passa per la capacità di rendere meno marginali le aree interne e più vitali le periferie. Insisto: nelle periferie delle grandi città, accanto a qualche bazar cinese, sta chiudendo tutto. Servono Smart Work Hub, luoghi che aiutino le città a diventare policentriche e verdi. Luoghi dove lavorare da remoto, confortevoli, ergonomici, che consentano relazioni sociali scelte, formative, che favoriscano il coordinamento. 

     
    Esiste un diritto non scritto riservato solo a chi abita in centro: la possibilità di avere tutto quello che serve nel quotidiano (lavoro incluso) a 15 minuti a piedi (o in bicicletta) dalla propria abitazione. Accanto ai lavori non remotizzabili, questa è un’opportunità che oggi può essere estesa ad ampi strati della popolazione rivitalizzando aree che sono sempre più abbandonate e insicure perché poco più che dormitori. 


    Come si fa a difendere l’organizzazione, la mobilità, i tempi delle città attuali? I cambiamenti del lavoro o si ripercuotono sul modello di sviluppo delle città, oppure si continuerà a pensare che la cattiva conciliazione del lavoro con la vita sia l’unico “modello di business” possibile per l’economia di una città. D’altronde, non è la prima volta che le città cambiano. Anche nel passato, come oggi, spesso le trasformazioni sono state rallentate o impedite da corporazioni urlanti che, pur rappresentando piccoli numeri, hanno la capacità di condizionare la politica e l’informazione più dell’intera cittadinanza. Se analizzassimo le forze che hanno impedito la cura del ferro – le infrastrutture di metropolitane e ferrovie in alcune città – capiremmo che c’è un problema di democrazia e non solo di legittimi interessi materiali.