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Bandiera bianca

Indignarsi per i monologhi di Sanremo vuol dire non aver capito Sanremo

Antonio Gurrado

Il Festival è un gioco linguistico e questo vale tanto per le canzoni quanto per gli interventi di cui poi si dibatte: prendere quelle parole alla lettera non ha senso 

Sanremo è un gioco linguistico. Si tratta infatti di una gara canora, il cui contenuto e senso dipendono interamente dal contesto, non hanno valore di per sé: nessuno prenderebbe alla lettera il testo di una canzone, nessuno si farebbe davvero mandare dalla mamma a prendere il latte perché gliel’ha detto Gianni Morandi, né si aspetta di trovare il proprio nome su un cartellone che fa della pubblicità perché gliel’hanno assicurato Amedeo Minghi e Mietta (du du da da da).

Le canzoni in gara a Sanremo sono di due tipi: alcune vengono eseguite con musica di sottofondo, e su quelle si vota, altre vengono eseguite sotto forma di monologhi, e su quelle si dibatte. In entrambi i casi, il testo segue determinati canoni ed è finalizzato a ingenerare una reazione emotiva nel pubblico, allo scopo di intrattenerlo. Come il voto per scegliere fra Elodie e Giorgia e Blanco, tanto per dire, così la discussione attorno ai contenuti di Paola Egonu o Chiara Ferragni o Roberto Benigni è poco più di un passatempo ozioso, in quanto finge di prendere seriamente come dirompenti o rivoluzionari concetti in realtà costruiti tanto quanto le parole d’amore – costrette dalla metrica, dal ritmo, dai gusti del pubblico, dai piani discografici – cantate nel microfono. Quindi non mi preoccupano tanto quelli che si entusiasmano per le prediche che sgorgano dal palco dell’Ariston, poiché guardando il Festival si esercita una sospensione dell’incredulità, che porta a comportarsi come se lo stratagemma retorico fosse reale e concreto. Mi preoccupano più quelli che non lo guardano per partito preso ma poi si scandalizzano e si indignano perché qualcuno, durante il monologo, ha osato dire du du da da da.

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