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bandiera bianca

Per essere davvero inclusivi i premi femminili dovrebbero ospitare gli uomini

Antonio Gurrado

Riflessioni sul Women’s Prize for Fiction, che continua a preferire l'esotismo delle autrici al valore letterario

Altro lessema per cui è difficile trovare adeguato equivalente italiano, diverse è una parolina magica che, spruzzata su qualcosa, immediatamente le conferisce un tocco di eleganza e di consapevole modernità. “Wonderfully diverse” (“splendidamente diversificato”?) è il commento con cui la presidentessa della giuria del Women’s Prize for Fiction ha annunciato le finaliste dell’edizione di quest’anno. Pare infatti ci siano autrici anglofone di ben sei nazionalità diverse, appartenenti a etnie diverse, e sono certo che si identifichino anche in almeno tre generi diversi, oltre a far probabilmente riferimento a sé con tutti i diversi pronomi disponibili sul tappeto.

Non solo. Senza aver letto uno dei romanzi finalisti, ha aggiunto la presidentessa, “non avrei mai saputo com’è essere una venditrice di giocattoli del Trinidad sposata a un uomo violento”. Io forse continuerò a vivere benone senza saperlo ma, nel frattempo, mi pongo un paio di domande: siamo certi che la bravura di un’autrice si misuri su quanto esotica sia la testimonianza diretta che può presentare? Se la storia della commerciante del Trinidad l’avesse scritta un’entomologa svedese, il romanzo avrebbe perso valore letterario o ne avrebbe guadagnato?  E, per rendere il Women’s Prize for Fiction davvero diverse, davvero inclusivo, davvero sorprendente e sofisticato, non sarebbe bastato includere fra i finalisti un bel maschietto?

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