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Con il nuovo Dpcm si può fare sport, ma a patto di non divertirsi

Antonio Gurrado

Tracima dal provvedimento del governo, un tacito afflato superstizioso che presuppone la necessità dell’espiazione

Man mano che procede l’impresa collettiva della traduzione in italiano del Dpcm sulla fase 2, fra le righe affiorano qua e là sottintesi che rivelano lo spirito delle settanta pagine di testo. Ad esempio, nel punto f del comma 1 dell’articolo 1 è scritto che sono consentite le attività sportive o motorie ma non quelle ludiche o ricreative. Distinzione singolare, poiché in un caso le definisce in base a un criterio meccanico (il fatto di star muovendosi, di star compiendo un esercizio fisico) ma nell’altro le definisce in base a un criterio spirituale, a una disposizione d’animo (lo star giocando o, addirittura, divertendosi). Stando alla lettera del decreto è dunque consentito fare sport ma non giocare, distinzione sottile che cimenta i lessicologi: se disegno per terra una campana e saltello da un numero all’altro fino a che non mi coglie un attacco cardiaco, sto facendo sport o sto giocando? E se mi metto a palleggiare col Tango nel mio cantuccio fino allo sfinimento, in che modo starei favorendo il contagio, di preciso? Idem, è consentito passeggiare, correre, andare in bici ma a patto di non divertirsi: di considerare insomma la propria attività motoria non una finestra ricreativa nel corso della noia quotidiana bensì una vana sofferenza, un rito penitenziale, un atto di contrizione. Tracima infatti, dal provvedimento del governo, un tacito afflato superstizioso che presuppone la necessità dell’espiazione e s’incardina forse sul timore che il virus sia una subdola vendetta della natura nei nostri confronti. Noi quindi, da bravi politeisti o pagani di ritorno, dobbiamo rabbonirla con sacrifici; dunque va bene fare sport ma senza giocare, va bene muoversi ma guai a divertirsi, altrimenti il virus ci punirà perché abbiamo osato goderci la vita o ciò che ci resta.

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