Palazzo Giustiniani. Consultazioni. Nella foto Luigi Di Maio (LaPresse)

Scavare nella storia del gran Seicento per comprendere il grillismo

Antonio Gurrado

"Adesso lo stato siamo noi", dice Di Maio. Due considerazioni

Adesso lo Stato siamo noi, dice Di Maio, e benché involontaria la citazione dal Re Sole è tanto lampante che tutti si affannano a chiosarla; chi dicendo che il neoministro del neolavoro ha già smanie da Luigino XIV, chi pronosticando che dietro quel plurale si celi un nuovo assolutismo, collettivista anzi totalitario (“Noi siamo la totalità”, ha postillato infatti Nicola Morra). Scavare nella storia del gran Seicento per comprendere il grillismo è un’esegesi forse eccessiva quanto far interpretare da un paleologo i fondi del caffè. Nell’eclatante riferimento storico si è perso invece il cristallino ragionamento sotteso all’argomentazione di Di Maio, tutto compreso in quell’avverbio spartiacque, “adesso”, che crea una contrapposizione. Prima del governo Conte lo Stato erano loro, dopo il giuramento lo Stato siamo noi. Ciò implica due conseguenze.

  

La prima è che manca a questa considerazione il minimo rispetto per l’essenza stessa dello Stato, radicata sul compromesso il più possibile neutrale e inclusivo: così che di fronte a ogni contrapposizione lo Stato non debba mai essere né noi né loro e al contempo debba essere sia noi sia loro – padroni e operai, atei e credenti, destra e sinistra, poveri e ricchi, maschi e femmine, maggioranza e opposizione. La seconda è che se prima lo Stato erano loro, e adesso siamo noi, vuol dire che basterà un primo passo falso del governo perché quelle stesse folle che stavano fischiando lo Stato vecchio inizino a fischiare anche lo Stato nuovo. In quel momento, spiace per Di Maio, i Cinque Stelle saranno diventati irrimediabilmente “loro”, perché in Italia lo Stato è sempre altrui.

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