Twitter ci insegna che nessuno ha qualcosa da dire, ma urge dirlo

Antonio Gurrado
La brevità ci è stata insegnata da Sallustio quindi non c’era bisogno di Twitter. Oggi l’uccellino compie dieci anni e si volta a fare bilanci su come ha cambiato il modo di comunicare degli uomini, consentendo a tutti di farlo purché a 140 caratteri per volta.

La brevità ci è stata insegnata da Sallustio quindi non c’era bisogno di Twitter. Oggi l’uccellino compie dieci anni e si volta a fare bilanci su come ha cambiato il modo di comunicare degli uomini, consentendo a tutti di farlo purché a 140 caratteri per volta. Il tweet più ritwittato della storia è stato il selfie degli attori durante gli Oscar, citato da tre milioni di persone nonostante non avesse altro contenuto che la tautologia della presenza umana. Quella foto celeberrima significava: “Noi, che vedete qui, siamo qui”; non a caso il primo tweet del fondatore di Twitter diceva grossomodo: “Sto twittando il mio primo tweet”.

 



 

Gutenberg, che per prima cosa stampò una Bibbia, seguendo gli stessi criteri avrebbe dovuto iniziare stampando un libro intitolato “Ho stampato il mio primo libro”. Sul genere umano Twitter ci rivela che nessuno ha davvero qualcosa da dire ma urge dirlo; non è debitore di Sallustio ma di Beckett, che voleva “esprimere che non c’è niente da esprimere e nessun desiderio di esprimerlo, ma c’è l’obbligo di esprimerlo”. Coi 140 caratteri Twitter ha imposto un limite illusorio, contraddetto dalla consapevolezza che tanto su internet lo spazio è infinito quindi a tutti è permesso scrivere tutto, brandendo a colpi di pensierini il vessillo della testimonianza della propria stessa esistenza. L’utente ideale di Twitter è chi sta twittando che sta twittando che sta twittando che sta twittando che sta (e basta, sono finiti i caratteri disponibili per la rubrica).

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