Manifestazione sindacale a Torino durante la festa del Primo Maggio (foto LaPresse)

I sindacati svengono: il vero vincitore del Primo Maggio si chiama Marchionne

Giuliano Cazzola
Le grandi organizzazioni sindacali sono riuscite al massimo a compensare i ridimensionamenti avvenuti nei settori primario e secondario, con un’espansione nel pubblico impiego e nella categoria dei pensionati, ma non rispondono alle esigenze della società dei servizi e all’articolazione delle classi lavoratrici.

C’è una dose eccessiva di ritualità nella celebrazione della Festa del 1° Maggio. L’iniziativa meno stantia (si svolge ormai da oltre vent’anni) rimane l’organizzazione del concerto in Piazza San Giovanni (anche il giovanilismo, tuttavia, è una forma di retorica) a cui partecipano centinaia di migliaia di giovani, la grande maggioranza dei quali incontra, quasi per caso, il sindacato soltanto in quell’occasione. Eppure, se è vero, come scriveva  Blaise Pascal, che i riti sono importanti nell’alimentare una fede che vacilla, ben vengano anche i fasti  (e i nefasti) del 1° Maggio a dimostrare che il sindacato “è vivo e lotta insieme a noi’’.

 

Prima o poi – sperano – la nottata passerà.  Intanto è di conforto trovarsi tra amici, magari un po’ invecchiati e usciti già dal mercato del lavoro per godersi l’agognata pensione (meglio se anticipata e ritenuta ormai una forma di socialismo individuale), quando il livello di gradimento è sceso agli ultimi posti e, addirittura, il premier/segretario afferma che ha fatto meglio e di più, per i lavoratori, quel Sergio Marchionne che, alcuni anni or sono, veniva sottoposto alla gogna (anche a quella mediatica) con l’accusa di voler  riportare indietro di secoli i diritti dei lavoratori. Ma il dilemma rimane. Le organizzazioni sindacali, con le loro politiche, vanno annoverate tra le forze innovatrici o tra quelle conservatrici? Sia pure con  differenti sfumature Cgil, Cisl e Uil contestano quasi tutte le politiche attuate da un Governo di centro sinistra, egemonizzato dal leader del Pd  e rivendicano, con minacce di referendum abrogativi, un sostanziale ripristino della situazione precedente, nel diritto e nel mercato del lavoro, nel welfare e quant’altro. Una reale dialettica tra governo e sindacati (i cui leader potrebbero essere, per età, rispettivamente  il padre e le zie di Renzi)  è non solo legittima ma anche auspicabile.

 


Sergio Marchionne (foto LaPresse)


 

Da un paio di anni, però, sono agli antipodi. Viene da chiedersi, allora, se è mai possibile che grandi organizzazioni, che associano milioni di lavoratori, siano in grado di trovare appoggi solo in aree minoritarie di quella sinistra politica che, fino a pochi anni fa, comandavano a bacchetta. E’ plausibile, poi, che quei provvedimenti  – che un Governo di sinistra vanta a proprio merito – si traducano, sul versante sindacale, nella denuncia  della “reazione in agguato’’?  C’è poi, irrisolto, il problema della forma del sindacato ovvero di come esso possa mettersi in grado di interpretare la realtà del mondo del lavoro  nelle sue trasformazioni. Nei decenni trascorsi, le Confederazioni sono state capaci – sia pure con significativi ritardi, sacrifici e contraddizioni – di transitare, per quanto riguarda sia le politiche sia gli strumenti organizzativi, dalla società agricola a quella industriale, fino ad imporre, con una forzatura ideologica,  il modello di relazioni industriali del manifatturiero a tutte le categorie.

 

In seguito, per loro la storia è finita lì. Al massimo, sono riusciti a compensare i ridimensionamenti avvenuti nei settori primario e secondario, con un’espansione nel pubblico impiego e nella categoria dei pensionati. Tanto che oggi la grande maggioranza degli iscritti ai sindacati  appartiene al mondo protetto dalla spesa pubblica e dal mercato interno. Cgil, Cisl e Uil stentano, però, ad adeguare le loro politiche sociali ed organizzative alle esigenze della società dei servizi e all’articolazione delle classi lavoratrici.  E’ questa la vera carenza che si riscontra sul tema  della rappresentanza e della rappresentatività. Sta tutta nel fatto che l’attuale modo di “essere sindacato’’ rimane confinato all’interno di un perimetro che va restringendosi. Fuori di esso, i gruppi dirigenti stessi hanno affisso, sul confine, un grande cartello con una scritta indicativa: hic sunt leones. Non  sono in grado di rappresentare le nuove tipologie di lavoro perchè le considerano come l’esito di un fenomeno degenerativo, da combattere e da riportare al più presto all’interno della visione classica  del lavoro dipendente standard: lo stesso a cui  perfino le leggi di riforma sono obbligate a rendere i soliti omaggi rituali e a riconoscergli una sorta di primato non solo contrattuale, ma pure etico. Intanto, dopo ben otto anni, i metalmeccanici sono tornati all’antica “abitudine’’ di scioperare unitariamente. In una normale vertenza – quando le trattative non procedono utilmente – scioperare è un fatto fisiologico.

 

Il problema è un altro: la Federmeccanica ha un’idea – condivisibile o meno – sul futuro delle relazioni industriali e sulla struttura della contrattazione;  i sindacati no. Il loro modello resta, sostanzialmente, quello di cinquant’anni fa, quando a innovare il sistema  furono loro.  Ma non esistono più rendite tanto durature. Tanto che le proposte contenute nel documento sulle relazioni industriali, varato il gennaio scorso dagli esecutivi confederali, non sono soltanto ‘“fuori mercato’’ (infatti, non le ha prese in considerazione nessuno), ma anche “fuori della storia’’ con la loro pretesa di risuscitare Lazzaro: ovvero quell’articolo 39 della Costituzione che venne considerato inadeguato persino settant’anni or sono.

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