In morte dello stato di diritto: basta il sospetto di mafia o corruzione per fermare un imprenditore innocente

Rocco Todero
Lontano dal clamore della stampa nazionale in Italia si combatte nelle aule dei Tribunali amministrativi una battaglia quotidiana contro la sopraffazione dello stato, posta in essere con il pretesto della lotta alla mafia e alla corruzione, nei confronti di centinaia di imprenditori che operano nel mercato dei lavori pubblici.

Lontano dal clamore della stampa nazionale in Italia si combatte nelle aule dei Tribunali amministrativi una battaglia quotidiana contro la sopraffazione dello stato, posta in essere con il pretesto della lotta alla mafia e alla corruzione, nei confronti di centinaia di imprenditori che operano nel mercato dei lavori pubblici.

 

L’informativa interdittiva antimafia e il commissariamento anticorruzione rappresentano, infatti, due fra le misure di prevenzione più invasive e penetranti che consentono allo stato, per il tramite degli oramai onnipotenti prefetti, di annientare la libertà d’impresa e di espropriare letteralmente le aziende private.

 

Con l’interdittiva antimafia il Prefetto vieta all’imprenditore di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione perché la sua azienda è sospettata di essere oggetto d’infiltrazione della criminalità mafiosa, alla quale consorteria naturalmente (e giustamente) deve essere impedito in ogni modo di ingrassarsi con i denari del pubblico erario. Accade così che in seguito alla comunicazione di una informativa antimafia negativa l’impresa non possa più partecipare ad alcuna gara pubblica per la realizzazione di lavori, forniture e servizi a favore dell’amministrazione e possa persino subire il recesso della controparte dal contratto in corso di esecuzione.

 

Il divieto in cui si concretizza l’interdittiva antimafia, tuttavia, secondo un orientamento diffuso del Consiglio di stato, prescinde dall’accertamento in sede penale di uno o più reati connessi all’associazione mafiosa, non necessita della prova di particolari fatti di reato, né di quella dell’effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa, né, infine, della dimostrazione del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi. E’ sufficiente che il prefetto produca “elementi sintomatici e indiziarii, da cui emergono sufficiente elementi di pericolo” del tentativo d’infiltrazione mafiosa perché l’azienda cessi a tempo indeterminato la propria attività all’interno del mercato in cui ha deciso liberamente di operare.

 

Imprenditori dalla fedina penale immacolata o indagati e prosciolti prima del dibattimento o, ancora, processati e assolti con la più ampia formula liberatoria e persino quelli che hanno goduto per colpa dell’inettitudine dello stato della prescrizione, subiscono increduli un ordine del prefetto di astenersi dal partecipare alle gare indette dalla pubblica amministrazione spesso perché quegli stessi fatti privi della benché minima rilevanza penale (e risalenti in moltissimi casi a decine di anni addietro rispetto all’epoca dell’accertamento) sarebbero comunque sintomatici di un coinvolgimento, seppur senza colpa dei diretti interessati, della criminalità mafiosa all’interno delle loro aziende.

 

Persino più deleteria è la condizione di quanti subiscono il commissariamento della propria azienda in virtù del decreto legge n. 90/2014 dedicato alla lotta alla corruzione all’interno della PA. E’ sufficiente che una qualsiasi Procura della Repubblica decida di indagare per uno degli innumerevoli delitti contro la pubblica amministrazione o che penda già un’informativa antimafia negativa con i caratteri sopra evidenziati perché il prefetto, su sollecitazione del Presidente dell’ANAC, possa provvedere a sostituire tutti gli organi d’amministrazione delle azienda con commissari che godano della sua personale fiducia.

 

Non occorre alcuna sentenza penale che accerti una qualche responsabilità, né una misura cautelare personale che consenta al giudice per le indagini preliminari di valutare almeno il fumus dell’accusa; è sufficiente l’inizio dell’indagine penale o la presenza di “rilevate situazioni anomale o comunque sintomatiche di condotte illecite” perché si proceda di fatto a un’espropriazione dell’impresa a seguito della quale i commissari nominati dal Prefetto (di solito burocrati cresciuti a distanza siderale dal mondo dell’economia di mercato e del management) vengono lautamente remunerati con i fondi dell’azienda stessa e gli utili che l’impresa produce risultano accantonati in un fondo speciale che può tornare nella disponibilità della proprietà solo una volta concluse le instaurate controversie giudiziarie.

 

In nome dell’antimafia e dell’anticorruzione lo stato emana provvedimenti che violano palesemente il principio di trasparenza e di pubblicità dell’azione amministrativa, atti che risultano privi di alcuna motivazione e che pretendono di sottrarsi persino al controllo dei Tribunali allorché non riescono ad indicare fatti puntuali e specifichi la cui esistenza rischia spesso di non essere verificabile nel contraddittorio fra le parti.

 

[**Video_box_2**]Il refrain dei prefetti, tra il detto e non il detto, secondo il quale gli organi investigativi avrebbero raggiunto una convinzione tuttavia non pubblicamente dimostrabile del pregiudizio in cui la l’amministrazione incorrerebbe nell’intrattenere rapporti contrattuali con chi è fatto oggetto di meri sospetti spesso risulta sufficiente anche per i Tribunali davanti ai quali il cittadino imprenditore, invece, chiede il pubblico accertamento delle proprie responsabilità.

 

La risposta, come detto, spesso (anche se non sempre per fortuna) è che un sospetto, un’indagine per corruzione appena iniziata, un’informativa dei carabinieri, una mera possibilità teorica di ingerenza mafiosa è più che sufficiente. Perché così vuole la legge, così vogliono l’antimafia e l’anticorruzione. Con buona pace dello stato di diritto e della credibilità delle istituzioni