Il governatore della Sicilia Rosario Crocetta (foto LaPresse)

Il circo mediatico-giudiziario in purezza

Redazione
Lezioni dall’intercettazione (inesistente) su Crocetta e Borsellino

Indagini chiuse. Il presidente della regione Sicilia, Rosario Crocetta, non ascoltò mai nel 2013, pronunciata dal suo medico Matteo Tutino, la frase “Lucia Borsellino va fatta fuori, come suo padre”. L’intercettazione non esiste, lo scoop dell’Espresso, se così si può definire – e così fu presentato da giornaloni, talk show e telegiornali – non c’era; anzi saranno caso mai due collaboratori del settimanale (eclissatesi le grandi firme) a rispondere in giudizio. Così ha stabilito la procura di Palermo mettendo, per ora, un punto fermo alla vicenda dell’estate scorsa che portò alle dimissioni da assessore regionale alla Sanità della figlia del magistrato ucciso nel 1992, e che oltre a sconcertare le persone perbene produsse soprattutto uno psicodramma nel nucleo duro dell’antimafia professionista e militante, quella di Libera e don Ciotti, delle Rosy Bindi e degli Ingroia. Crocetta compreso, che sbandierava in pubblico lacrime e propositi suicidi. Perfino il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ci cascò, esprimendo telefonico sdegno ed evitando a Palermo incontri imbarazzanti con il governatore, intanto che lei, Lucia Borsellino, veniva chiamata a Roma dal governo a lavorare all’Agenzia di controllo dei servizi sanitari regionali (Agenas). L’intercettazione non c’è, non ci fu mai, o forse, boh, qualcosa fu detto e riferito, però nel senso di far fuori la Borsellino ma dall’ambìto incarico regionale. Una sorta di spiata di secondo grado, alla stregua di un’obbligazione subordinata. Ma ovviamente non è questo il punto.

 

Questo giornale – che ha sempre scritto di considerare Crocetta un pessimo amministratore, il peggiore per la Sicilia, nonché incarnazione della più trita retorica benecomunista, l’uomo che affidò appunto ad Antonio Ingroia il servizio di riscossione delle imposte regionali – fu allora tra i pochissimi a difenderlo da accuse basate, tanto per cambiare, sulle intercettazioni. Incredibilmente, ma anche no, Marco Travaglio, direttore del Fatto e leader morale del giustizialismo mediatico, canta vittoria perché “abbiamo sempre dubitato che l’intercettazione esistesse”. Certo, chi sul grande orecchio giudiziario ha sempre campato non può che consideralo arbitro unico di vita e di morte, strumento supremo della politica, arma irriformabile in mano ai pm. L’assenza di intercettazione – è l’assunto – equivale ad assenza di verità, il che rafforza la purezza ontologica dell’intercettazione stessa. Non sfiora l’idea che se non ci si libera da questo inquinamento giudiziario e mediatico ci possiamo solo dare l’arrivederci alla prossima intercettazione, al prossimo polverone, al prossimo harakiri politico e informativo.