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Anatomia degli scafisti. Per soldi o disperazione (e quegli ucraini di lusso)

Cristina Giudici
Perché muoiono nelle stive (mercoledì altri cinquanta)

Milano. Sono 50 e li hanno trovati morti dentro la stiva, mercoledì, in un barcone soccorso in acque libiche. Probabilmente per asfissia. Gli altri 439 sono stati presi a bordo dalla nave svedese Poseidon, che partecipa a Frontex. Scafisti assassini, si ripeterà. Ma la realtà è che oramai in Libia la richiesta di “passaggi” è così forte che i trafficanti li stivano nelle barche per liberare i magazzini. Eppure, nella narrazione quotidiana dell’esodo che arriva dal Mediterraneo, mancano sempre dei tasselli per ricomporre il puzzle e cercare di comprendere meglio il fenomeno. Dall’inizio dell’anno sono sbarcati oltre centomila migranti. Ad ogni sbarco, alcuni scafisti vengono identificati dai profughi, che collaborano con la giustizia italiana per riconoscenza verso i propri salvatori, o perché divorati dal desiderio di vendetta nei confronti dei trafficanti che li hanno vessati. Sulla base della stima empirica dei poliziotti che lavorano senza sosta nei porti siciliani, sono circa 300 gli scafisti arrestati dall’inizio del 2015. Non esiste il prototipo dello scafista. Arrivano, sbarcano, e vanno in galera perché sono cattivi. Stop. Se sono al primo arresto, patteggiano e tornano da dove sono venuti per guidare un altro carico di “merce”. Se invece sono recidivi, in media il 10 per cento, rimangono in carcere a scontare la pena per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

 

Eppure basta graffiare la superficie della narrazione piena di lacune per capire che, dietro le didascaliche informazioni formato mattinale della questura, ci sono diverse categorie di scafisti. Molti sono scafisti “per necessità”. Ossia rappresentano l’ultimo anello della filiera criminale dei trafficanti. Giovani africani subsahariani addestrati in modo improvvisato dai miliziani-trafficanti libici, che si offrono di guidare un gommone in cambio di un biglietto di sola andata per il Canale di Sicilia. Incarnano la banalità del male: interrogati dopo il fermo, non paiono consapevoli del male cagionato. Inesperti, spesso perdono la rotta, causano naufragi e lutti dovuti all’inalazione di idrocarburi. Oppure riescono a mantenere la via, a condurre i gommoni verso la salvezza e spesso non vengono denunciati dai passeggeri perché considerati figli dello stesso, disgraziato destino. Sono quelli che vengono dal Gambia, dal Ghana, dalla Nigeria, recentemente anche dalla Somalia. E finiscono nel magma dei centri di accoglienza, mescolandosi fra i profughi. Ma la maggior parte degli scafisti sono invece dei professionisti. Pescatori egiziani e tunisini che conoscono le regole della navigazione, se non quelle della morale. I tunisini lavorano spesso al soldo dei libici e sono più feroci perché riscuotono i soldi, maledetti e subito, e non hanno alcun vantaggio a far arrivare i loro clienti vivi in Europa. Subiscono a loro volta la pressione da parte dei trafficanti – che devono svuotare i magazzini-hub dove sono tenuti i migranti in attesa di partire – e guidano gommoni o carrette fatiscenti, sovraffollate. Senza nessun dilemma etico, quando devono rinchiudere in una stiva un parte del “carico” per mancanza di spazio. E’ così che sono morti, asfissiati, i 49 migranti nella strage di Ferragosto. E quelli di mercoledì. Gli egiziani invece sono generalmente membri di un’organizzazione di trafficanti. Appartengono alla categoria degli scafisti-imprenditori. Per loro è importante che i passeggeri arrivino in Europa sani e salvi perché mirano a difendere la loro “reputazione”, per poi essere più competitivi nel mercato dell’immigrazione clandestina.

 

[**Video_box_2**]Infine, meno conosciuti, ci sono gli scafisti freelance. Quasi sempre ex militari ucraini, o skipper esperti, che mettono a disposizione i loro velieri per portare i profughi siriani facoltosi, che possono permettersi di pagare viaggi di 5 mila dollari, direttamente sulle coste italiane, se non vengono intercettati dalle navi di Frontex. Non guidano carrette che possono ribaltarsi, ma barche a vela che poi ritornano sulla costa turca. E vengono arrestati più raramente. Tutti gli scafisti hanno però un tratto comune: l’assenza del senso di colpa. Quando si pentono, lo fanno solo per necessità. L’ultimo, egiziano, Nabil, ha ammesso le sue responsabilità, usando queste parole: “Sono stanco. Vado in galera perché ho bisogno di riposare”.

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